La stabilità e l’operatività del Governo Letta sono state fortemente condizionate, sin dalla sua entrata in carica, non tanto (e non solo) dall’eterogenea maggioranza che lo ha sostenuto, quanto (e soprattutto) dalle vicende giudiziarie del leader di uno dei partiti della maggioranza di governo, Silvio Berlusconi. In questa anomala intersezione, sia il Presidente del Consiglio dei ministri, Enrico Letta, che il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, hanno cercato di ripristinare il fisiologico funzionamento del sistema nell’auspicio che gli accadimenti processuali del leader del Pdl potessero essere riassorbiti, attutiti e risolti all’interno della dialettica infra- ed inter-partitica. In particolare, al crescendo dei toni e della reattività del centrodestra ai principali appuntamenti processuali di Silvio Berlusconi (dalla sentenza dell’8 maggio 2013 della Corte di Appello di Milano che ne confermava la condanna a quattro anni di reclusione e cinque di interdizione dai pubblici uffici per frode fiscale sui diritti televisivi Mediaset; alla sentenza del 19 giugno 2013, n. 168 della Corte costituzionale sulla questione del legittimo impedimento eccepito dall’imputato Silvio Berlusconi nell’udienza del 1° marzo 2010 avanti al Tribunale di Milano, sezione I penale, sempre nel corso del processo Mediaset per frode fiscale; all’ulteriore sentenza di condanna penale pronunciata il 24 giugno 2013 dal Tribunale di Milano per il c.d. caso Ruby; per giungere alla sentenza della sezione feriale della Corte Suprema di Cassazione che, nella sostanza, confermava la condanna di Silvio Berlusconi inflitta dalla Corte d’Appello di Milano l’8 maggio 2013, limitandosi ad annullarla nella parte in cui veniva condannato alla pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici per cinque anni, per violazione dell’art. 12, c. 2, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 – Cass. Pen. sez. feriale, sentenza 1 agosto 2013, n. 35729 – con tutto quanto ne è conseguito in ordine alla contestazione, apertasi nella giunta per le elezioni e le immunità parlamentari del Senato a partire dal 7 agosto 2013, della sopravvenuta incandidabilità ai sensi degli artt. 1 e 3, d.lgs. 235 del 2012, del senatore Silvio Berlusconi) ha corrisposto una parallela evoluzione nella portata e nelle modalità di intervento del Presidente della Repubblica e del Presidente del Consiglio dei ministri. Così, da una prima in cui i due Presidenti si sono attestati su una congiunta opera di richiami ecumenici e generali alla solidità della maggioranza di governo; si è passati ad una seconda fase, dal 18 luglio 2013, in cui i due Presidenti sono intervenuti in diretta ed esplicita mediazione con il Pdl, nel dichiarato tentativo di isolare le vicende processuali di Silvio Berlusconi dalle dinamiche ordinamentali e di spostare la questione della sua c.d. agibilità politica sul terreno del dialogo tra le forze politiche in Parlamento. Anche a fronte del riversarsi delle fibrillazioni politiche (attraverso l’uso strumentale degli accadimenti giudiziari di Silvio Berlusconi, nella specie la fissazione al 30 luglio 2013 dell’udienza della Corte di Cassazione) sull’ordinato funzionamento delle Assemblee parlamentari, provocandone un blocco – sia pure temporaneo – dei lavori, il Capo dello Stato interveniva, incontrando lo stesso Presidente del Consiglio dei ministri, per smorzare i toni dello scontro e far accettare la sospensione di qualche ora dei lavori parlamentari quale “male minore” al ben più grave rischio di tenuta dell’Esecutivo. La terza ed ultima fase, con la quale si conclude la cronaca del presente scritto, è attraversata da una escalation delle tensioni politiche che hanno ulteriormente e gravemente inciso sulla fisiologica dinamica istituzionale. Questa terza fase si è innescata a partire dal videomessaggio di duro attacco alla magistratura diffuso da Silvio Berlusconi il 18 settembre 2013 e dalla contestazione della sua elezione nel seggio di senatore della regione Molise avviata, sempre in tale data, dalla giunta per le elezioni. Ed è sfociata nell’approvazione per acclamazione da parte dei gruppi parlamentari del Pdl delle loro dimissioni di massa e nelle dimissioni imposte ai ministri del centrodestra. In questo scenario, Presidente della Repubblica e Presidente del Consiglio sono passati dalle “parole ai fatti”, nella comune convinzione che la questione avrebbe dovuto trovare chiarimento nella sede istituzionale propria, quella parlamentare. In questo modo hanno cercato di “responsabilizzare” il duro (quanto pretestuoso) scontro politico, riconducendolo entro dinamiche più elevate e trasparenti, quelle istituzionali, appunto. E, come osservato da Massimo Luciani proprio in relazione a questa crisi rientrata, la flessibilità e capacità di assorbimento dei conflitti della forma di governo parlamentare ha dato prova di consentire la tenuta del sistema senza subire distruttive lacerazioni.

Gli sforzi congiunti del Presidente del Consiglio dei ministri e del Presidente della Repubblica per evitare la crisi di governo.

MACCABIANI, Nadia
2013-01-01

Abstract

La stabilità e l’operatività del Governo Letta sono state fortemente condizionate, sin dalla sua entrata in carica, non tanto (e non solo) dall’eterogenea maggioranza che lo ha sostenuto, quanto (e soprattutto) dalle vicende giudiziarie del leader di uno dei partiti della maggioranza di governo, Silvio Berlusconi. In questa anomala intersezione, sia il Presidente del Consiglio dei ministri, Enrico Letta, che il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, hanno cercato di ripristinare il fisiologico funzionamento del sistema nell’auspicio che gli accadimenti processuali del leader del Pdl potessero essere riassorbiti, attutiti e risolti all’interno della dialettica infra- ed inter-partitica. In particolare, al crescendo dei toni e della reattività del centrodestra ai principali appuntamenti processuali di Silvio Berlusconi (dalla sentenza dell’8 maggio 2013 della Corte di Appello di Milano che ne confermava la condanna a quattro anni di reclusione e cinque di interdizione dai pubblici uffici per frode fiscale sui diritti televisivi Mediaset; alla sentenza del 19 giugno 2013, n. 168 della Corte costituzionale sulla questione del legittimo impedimento eccepito dall’imputato Silvio Berlusconi nell’udienza del 1° marzo 2010 avanti al Tribunale di Milano, sezione I penale, sempre nel corso del processo Mediaset per frode fiscale; all’ulteriore sentenza di condanna penale pronunciata il 24 giugno 2013 dal Tribunale di Milano per il c.d. caso Ruby; per giungere alla sentenza della sezione feriale della Corte Suprema di Cassazione che, nella sostanza, confermava la condanna di Silvio Berlusconi inflitta dalla Corte d’Appello di Milano l’8 maggio 2013, limitandosi ad annullarla nella parte in cui veniva condannato alla pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici per cinque anni, per violazione dell’art. 12, c. 2, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 – Cass. Pen. sez. feriale, sentenza 1 agosto 2013, n. 35729 – con tutto quanto ne è conseguito in ordine alla contestazione, apertasi nella giunta per le elezioni e le immunità parlamentari del Senato a partire dal 7 agosto 2013, della sopravvenuta incandidabilità ai sensi degli artt. 1 e 3, d.lgs. 235 del 2012, del senatore Silvio Berlusconi) ha corrisposto una parallela evoluzione nella portata e nelle modalità di intervento del Presidente della Repubblica e del Presidente del Consiglio dei ministri. Così, da una prima in cui i due Presidenti si sono attestati su una congiunta opera di richiami ecumenici e generali alla solidità della maggioranza di governo; si è passati ad una seconda fase, dal 18 luglio 2013, in cui i due Presidenti sono intervenuti in diretta ed esplicita mediazione con il Pdl, nel dichiarato tentativo di isolare le vicende processuali di Silvio Berlusconi dalle dinamiche ordinamentali e di spostare la questione della sua c.d. agibilità politica sul terreno del dialogo tra le forze politiche in Parlamento. Anche a fronte del riversarsi delle fibrillazioni politiche (attraverso l’uso strumentale degli accadimenti giudiziari di Silvio Berlusconi, nella specie la fissazione al 30 luglio 2013 dell’udienza della Corte di Cassazione) sull’ordinato funzionamento delle Assemblee parlamentari, provocandone un blocco – sia pure temporaneo – dei lavori, il Capo dello Stato interveniva, incontrando lo stesso Presidente del Consiglio dei ministri, per smorzare i toni dello scontro e far accettare la sospensione di qualche ora dei lavori parlamentari quale “male minore” al ben più grave rischio di tenuta dell’Esecutivo. La terza ed ultima fase, con la quale si conclude la cronaca del presente scritto, è attraversata da una escalation delle tensioni politiche che hanno ulteriormente e gravemente inciso sulla fisiologica dinamica istituzionale. Questa terza fase si è innescata a partire dal videomessaggio di duro attacco alla magistratura diffuso da Silvio Berlusconi il 18 settembre 2013 e dalla contestazione della sua elezione nel seggio di senatore della regione Molise avviata, sempre in tale data, dalla giunta per le elezioni. Ed è sfociata nell’approvazione per acclamazione da parte dei gruppi parlamentari del Pdl delle loro dimissioni di massa e nelle dimissioni imposte ai ministri del centrodestra. In questo scenario, Presidente della Repubblica e Presidente del Consiglio sono passati dalle “parole ai fatti”, nella comune convinzione che la questione avrebbe dovuto trovare chiarimento nella sede istituzionale propria, quella parlamentare. In questo modo hanno cercato di “responsabilizzare” il duro (quanto pretestuoso) scontro politico, riconducendolo entro dinamiche più elevate e trasparenti, quelle istituzionali, appunto. E, come osservato da Massimo Luciani proprio in relazione a questa crisi rientrata, la flessibilità e capacità di assorbimento dei conflitti della forma di governo parlamentare ha dato prova di consentire la tenuta del sistema senza subire distruttive lacerazioni.
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