Nella Costituzione non esiste alcun riferimento che qualifichi l’italiano lingua ufficiale della Repubblica. Gli unici richiami diretti al “fenomeno linguistico” rintracciabili nella Carta fondamentale sono quelli contenuti nell’articolo 3, nell’articolo 6 e nell’articolo 111, cui si aggiunge il disposto della X Disposizione transitoria e finale. L’articolo 3, al primo comma, individua – anche – nella «lingua» uno dei fattori di non discriminazione; l’articolo 6 indica quale specifico compito della Repubblica quello di «tutela[re] con apposite norme le minoranze linguistiche»; l’articolo 111 (a seguito della riforma costituzionale del 1999 che ha previsto l’inserimento in Costituzione dei «principi del giusto processo») affida nel suo terzo comma alla legge il compito di assicurare che in ambito penale la persona accusata «sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo»; la X Disposizione transitoria e finale, nello stabilire che al Friuli-Venezia Giulia si sarebbero applicate provvisoriamente le regole generali previste nel Titolo V della Parte Seconda (in attesa dell’adozione con legge costituzionale del relativo Statuto speciale), manteneva ferma la necessaria tutela in quel territorio – da subito – delle minoranze linguistiche «in conformità con l’articolo 6». I tre richiami alla “lingua” contenuti nella Costituzione del 1948, come del resto il quarto inserito nel 1999, fanno dunque anzi – in qualche modo all’opposto – riferimento alle lingue diverse da quella maggioritaria: in due casi direttamente (articolo 6 e X Disposizione transitoria e finale), individuando proprio nell’appartenenza ad un gruppo che parla una lingua minoritaria un requisito per accedere a forme specifiche di tutela che è compito della Repubblica garantire; in un terzo caso indirettamente (articolo 3, comma 1), giacché stabilire che il parlare una qualsiasi lingua non può costituire un fattore di disuguaglianza significa innanzitutto preoccuparsi di tutelare la posizione di chi parla una lingua diversa da quella maggioritaria. In quest’ultima circostanza si segue peraltro una logica “laica”, non distinguendo cioè le lingue minoritarie da quella maggioritaria, ponendo così idealmente tutti gli idiomi sullo stesso piano e rifiutando di impostare la questione linguistica in una prospettiva gerarchica. Da questo punto di vista, è interessante notare come la medesima logica sia stata mantenuta dal legislatore costituzionale del 1999, che nel preoccuparsi di garantire l’assistenza linguistica a chi parla “un’altra” lingua, si è riferito genericamente a chi non comprende o non parla «la lingua impiegata nel processo». Peculiare è dunque l’impianto della “Costituzione linguistica” italiana, ossia dell’impostazione della Costituzione nei confronti della lingua, o, più correttamente, delle lingue e di chi le parla. Impostazione che, a fronte di una legislazione (a diversi livelli) e di una giurisprudenza costituzionale che non paiono invece porsi in quella stessa prospettiva, merita di essere ancora studiata e valorizzata nelle sue implicazioni in ottica pluralista.

La Costituzione linguistica. Pluralismo e integrazione oggi

Marco Podetta
2023-01-01

Abstract

Nella Costituzione non esiste alcun riferimento che qualifichi l’italiano lingua ufficiale della Repubblica. Gli unici richiami diretti al “fenomeno linguistico” rintracciabili nella Carta fondamentale sono quelli contenuti nell’articolo 3, nell’articolo 6 e nell’articolo 111, cui si aggiunge il disposto della X Disposizione transitoria e finale. L’articolo 3, al primo comma, individua – anche – nella «lingua» uno dei fattori di non discriminazione; l’articolo 6 indica quale specifico compito della Repubblica quello di «tutela[re] con apposite norme le minoranze linguistiche»; l’articolo 111 (a seguito della riforma costituzionale del 1999 che ha previsto l’inserimento in Costituzione dei «principi del giusto processo») affida nel suo terzo comma alla legge il compito di assicurare che in ambito penale la persona accusata «sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo»; la X Disposizione transitoria e finale, nello stabilire che al Friuli-Venezia Giulia si sarebbero applicate provvisoriamente le regole generali previste nel Titolo V della Parte Seconda (in attesa dell’adozione con legge costituzionale del relativo Statuto speciale), manteneva ferma la necessaria tutela in quel territorio – da subito – delle minoranze linguistiche «in conformità con l’articolo 6». I tre richiami alla “lingua” contenuti nella Costituzione del 1948, come del resto il quarto inserito nel 1999, fanno dunque anzi – in qualche modo all’opposto – riferimento alle lingue diverse da quella maggioritaria: in due casi direttamente (articolo 6 e X Disposizione transitoria e finale), individuando proprio nell’appartenenza ad un gruppo che parla una lingua minoritaria un requisito per accedere a forme specifiche di tutela che è compito della Repubblica garantire; in un terzo caso indirettamente (articolo 3, comma 1), giacché stabilire che il parlare una qualsiasi lingua non può costituire un fattore di disuguaglianza significa innanzitutto preoccuparsi di tutelare la posizione di chi parla una lingua diversa da quella maggioritaria. In quest’ultima circostanza si segue peraltro una logica “laica”, non distinguendo cioè le lingue minoritarie da quella maggioritaria, ponendo così idealmente tutti gli idiomi sullo stesso piano e rifiutando di impostare la questione linguistica in una prospettiva gerarchica. Da questo punto di vista, è interessante notare come la medesima logica sia stata mantenuta dal legislatore costituzionale del 1999, che nel preoccuparsi di garantire l’assistenza linguistica a chi parla “un’altra” lingua, si è riferito genericamente a chi non comprende o non parla «la lingua impiegata nel processo». Peculiare è dunque l’impianto della “Costituzione linguistica” italiana, ossia dell’impostazione della Costituzione nei confronti della lingua, o, più correttamente, delle lingue e di chi le parla. Impostazione che, a fronte di una legislazione (a diversi livelli) e di una giurisprudenza costituzionale che non paiono invece porsi in quella stessa prospettiva, merita di essere ancora studiata e valorizzata nelle sue implicazioni in ottica pluralista.
2023
979-12-5976-684-7
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11379/578185
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