Freud non si interessava ai bambini per una loro possibile analisi: inquadrò lo sviluppo infantile nella sua teoria energetico-pulsionale. Il bambino attraverserebbe una serie di fasi sessuali, nelle quali sorgerebbero determinate pulsioni, che organizzerebbero lo sviluppo a seconda degli “oggetti” incontrati nella realtà. Il modello è fondato sulle pulsioni e sulla scarica energetica: l’oggetto e le relazioni sono funzionali alla scarica dell’energia libidica. Non si tratta quindi di una teoria relazionale. Al tempo di Freud si riteneva che lo sviluppo psichico fosse da attribuirsi prevalentemente alla genetica: in questo caso lo sviluppo avrebbe dovuto essere uguale per tutti. La teoria freudiana di forze endogene (pulsioni) spiega l’esistenza di una variabilità individuale con il concetto di “investimento” sui vari oggetti della realtà (Imbasciati, 2005 b). L’importanza delle relazioni viene messa in evidenza quando alcuni psicoanalisti cominciano ad occuparsi di bambini: Jung, Abraham. La psicoanalisi dei bambini si presenta come un’arte difficile, tuttavia Abraham ne incoraggia l’esercizio tra i suoi allievi: farà così anche con Melanie Klein (Geissmann, 1992). Intanto la figlia di Freud, Anna (1930, 1943, 1950, 1957), insieme a Doroty Burlingham, nelle Hampstaed Nurseries (Freud A., Burlingham, 1943), inizia ad osservare i bambini da 0 a 4 anni, e le loro problematiche dovute alla separazione dalla loro madre (Freud A., 1949). Gli studi di Ferenczi e di Melanie Klein hanno il privilegio di aver messo in evidenza il primo periodo dello sviluppo infantile come momento fondamentale nella vita di ogni individuo e l’importanza delle prime relazioni con la madre nella strutturazione dei processi psichici. Con Ferenczi (1927, 1929, 1932) la psicoanalisi inizia a riconoscere l’importanza di allargare il focus dell’attenzione agli aspetti interpersonali del bambino piccolo con i suoi genitori, ed evidenzia come il neonato sia dotato dalla nascita di una predisposizione alla relazione. Si studiano i processi mentali che guidano la relazione del genitore rispetto al bambino, attraverso l’accudimento, dando importanza alla manifestazione di scambi affettivi rispetto ad una carenza dovuta a trascuratezza e abbandono. La Klein (1932) mette a punto la sua tecnica di analisi attraverso il gioco: con la sua opera (1921-1958) si afferma l’idea che, se si riesce ad intervenire precocemente con appropriati trattamenti, proprio attraverso il gioco, è possibile riscontrare miglioramenti o evitare stati anche gravi di disagio. La Klein dimostra come la tecnica del gioco con i bambini permetta di rispettare nell’analisi infantile i principi teorici e tecnici su cui si fonda l’analisi degli adulti.Dalle concezioni energetico-pulsionali freudiane, cioè da una concezione endogenista e intraindividuale, la psicoanalisi, attraverso l’analisi dei bambini, evolve verso una concezione relazionale. L’“oggetto”, obbiettivo della pulsione freudiana, diventa strutturante esso stesso per lo sviluppo (Greenberg, Mitchell, 1983): lo spostamento di interesse dalla pulsione all’oggetto relazionale implica una maggiore considerazione delle figure di accudimento, dell’ambiente e delle rappresentazioni interne della realtà, in cui è immerso il neonato. Si sviluppano le teorie oggettuali o della Relazione d’oggetto, che ricevono i contributi più importanti delle scuole psicoanalitiche inglesi (Klein, Balint, Fairbairn, Winnicott, Bion). Winnicott (1958) descrive l’elaborazione dei vissuti materni nei confronti del neonato con i concetti di “madre sufficientemente buona”, di “contenimento” materno e di “preoccupazione materna primaria” (1956); e contemporaneamente considera lo sviluppo affettivo del bimbo in rapporto con il suo ambiente (1941, 1965), sottolineando che non esiste un bambino, ma un “bambino con la sua mamma”. La diade madre-bambino è una “unità” e come tale va studiata, per essere veramente compresa nella complessità delle sue manifestazioni. La metodologia dell’Infant-Observation, messa a punto dalla Bick (1964) e poi dalla Harris (1980), dà una svolta decisiva alla psicoanalisi con l’osservazione del bambino molto piccolo nel suo ambiente, effettuata da un osservatore con una rigorosa procedura. Questa metodologia di osservazione del lattante viene inserita come addestramento alla psicoterapia infantile presso la Tavistock Clinic di Londra: l’Infant Observation è utile come metodologia formativa in quanto consente all’osservatore di fare una esperienza della crescita e dello sviluppo di un bimbo fino ai due anni, ma soprattutto di partecipare all’atmosfera emozionale nella quale il bambino vive e cresce; affina la sua capacità di rapportare gli stati emozionali della madre con quelli che osserva nel bambino, e di confrontare il supporto fornito dalla madre in rapporto ai bisogni fisici, emotivi e cognitivi del bambino stesso (Imbasciati, Cena, 1992). La necessità di osservare il bambino all’interno della rete interattiva che lo circonda (Greenberg, Mitchell, 1983) porta a concepire un “bambino relazionale”. Con la Klein, Balint (1952), Fairbairn (1952), Winnicott, Bion (1962) la psicoanalisi elabora i contributi più importanti alla evoluzione di un modello osservativo-relazionale. Successivamente i contributi della Mahler (Mahler et al., 1975) si orienteranno progressivamente all’osservazione non soltanto del bambino, ma anche della relazione con la madre. Negli anni ‘70 un approccio etologico consente di ampliare la metodologia dell’osservazione diretta come metodo scientifico, attribuendo molta importanza all’ambiente naturale in cui il comportamento si manifesta spontaneamente. Bowlby, psicoanalista, si interessa di etologia e attraverso le sue intuizioni sviluppa quella che viene denominata la Teoria dell’Attaccamento: questa consente di dare una svolta importante allo studio delle relazioni. La teoria dell’attaccamento (Bowlby, 1969-1982, 1973, 1980), con le osservazioni e gli studi sulle primissime interazioni neonato-caregiver, fornisce evidenze sperimentali di come la psiche infantile si organizzi e si modelli nelle specifiche relazioni che il bambino instaura con le figure affettive di riferimento. Con il termine “attaccamento” viene individuata quella modalità presente dalla nascita, per cui si ricerca la vicinanza delle persone importanti per la sopravvivenza e la protezione. Lo sviluppo dell’attaccamento viene localizzato nel primo anno di vita, periodo definito “sensibile”: il bimbo inizia ad interiorizzare le relazioni, trasformandole in schemi cognitivi, modelli rappresentativi interni di ciò che accade con le figure di accudimento, e di sé nella relazione. Sulla base di tali rappresentazioni il bimbo diventa progressivamente più o meno capace, o incapace, e comunque con modi squisitamente propri, di adottare comportamenti intenzionali in relazione alle esigenze dell’altro. Bowlby evidenzia come la separazione, (1973) o la perdita, di una figura di attaccamento (1980) possano dare origine a disturbi psicopatologici. La sua più nota allieva, la Ainsworth, struttura un setting sperimentale per la valutazione della relazione di attaccamento, la Strange Situation (Ainsworth et al., 1978), e sottolinea come la qualità dell’attaccamento dipenda dalle contingenze ambientali, dagli atteggiamenti e dal grado di “sensibilità” e “responsività” del genitore (Ainsworth, 1979): sono queste che danno origine a diversi “pattern” di attaccamento (Ainsworth, 1985), che si strutturano come schemi operativi relazionali. Il bimbo connota il caregiver in funzione della sua risposta ai suoi comportamenti e questo struttura un particolare “stile” con cui viene espresso il pattern d’attaccamento che caratterizza quella specifica relazione. In funzione della risposta genitoriale, il sistema interattivo si organizzerà attraverso un processo di regolazione del comportamento, con modalità non unidirezionali, ma reciproche, in cui è rilevante la capacità di intuizione e comprensione nel bimbo delle emozioni e dei sentimenti del suo caregiver e la sua capacità di adattarvisi. Nella relazione di attaccamento si formano gli Internal Working Models (I.W.M.), o Modelli operativi interni (M.O.I.), che entrano ad organizzare il comportamento dell’individuo anche come modalità cognitive specifiche. La predisposizione a ricercare la presenza di un adulto che eserciti la funzione di protezione e cura, sicurezza e conforto e si costituisca come “base sicura” da cui il bimbo possa partire per l’esplorazione del mondo circostante (Bowlby, 1988), costituisce una spinta motivazionale definita di tipo primario, in quanto innata e universale, poiché può essere osservata in tutti i soggetti, nelle varie culture. Questi presupposti, su cui si fonda la teoria dell’attaccamento, si pongono in contraddizione con l’approccio psicoanalitico classico e la concezione pulsionale freudiana, secondo cui il bambino svilupperebbe legami di attaccamento solo a seguito della soddisfazione dei bisogni fisiologici. Le ricerche, dal dopoguerra fino agli anni ‘70, considerano prevalentemente la relazione madre-bambino poiché la figura femminile è tradizionalmente la più coinvolta e impegnata nella cura dei figli. Bowlby (1969) ritiene che l’attaccamento sia prevalente verso una figura affettiva di riferimento, la madre, ma è possibile si sviluppino altre relazioni di attaccamento, a partire da quelle col padre: durante il primo anno il bambino stabilisce più di un legame di attaccamento, e questo viene confermato da osservazioni empiriche (Schaffer, Emerson,1964). Altre allieve di Bowlby proseguono le ricerche sperimentali sui pattern relazionali (Main, 1993), individuando nelle prospettive evoluzionistiche dell’attaccamento nuovi modelli esplicativi (Crittenden, 2008). Dagli anni ‘70 si assiste ad un importante e intenso sviluppo di ricerche sull’infanzia condotte secondo approcci teorici diversi, che amplia considerevolmente i dati empirici a disposizione dei ricercatori. L’approccio osservativo viene supportato da tecniche sofisticate e ricerche scientifiche sperimentali che rendono possibile una diretta convergenza con la psicologia dell’età evolutiva attraverso il formarsi di un’area di ricerca condivisa, l’Infant Research, che mette in discussione alcuni assunti classici della teoria freudiana, come quello del bambino monadico pulsionale. Il bambino piccolo viene osservato nelle relazioni con i suoi caregiver (Stern, 1974; Tronick et.al. 1978; Trevarthen, 1979; Fogel, 1982; Sander, 1987) con l’utilizzo di procedure diverse e nuove tecnologie: l’osservazione ha il suo focus sulla interazione tra il bimbo e i suoi caregiver (Imbasciati, Cena, 2010) e presenta complessità tali che il ricercatore e il clinico necessitano di un equipaggiamento teorico e strumentale che consenta di trarre quelle informazioni indispensabili per strutturare un intervento di aiuto adeguato. La difficoltà a descrivere la complessità dell’interazione, negli aspetti e attraverso le sfumature che passano nella comunicazione non verbale tra genitore e bambino implica che l’osservatore abbia acquisito una specifica sensibilità personale, affinata attraverso peculiari percorsi formativi: nella metodologia osservativa dell’interazione genitore-bambino vengono utilizzate procedure audiovisive di video-osservazione (Schaffer, 1977) che consentono di ritornare più volte a rivedere quanto accade nell’interazione, con una tecnica di analisi sequenziale delle interazioni che vengono osservate (Bakerman, 1978). Gli strumenti tecnologici consentono di filmare i momenti di osservazione diretta delle interazioni del singolo e della relazione genitore-bambino, sui quali l’osservatore può ritornare più volte prima di impostare un qualche intervento. Questo permette di rilevare aspetti dello sviluppo del bambino e delle sue interazioni che possono essere a disposizione del clinico e del ricercatore offrendo la possibilità di analizzare con modalità microanalitiche quanto non sarebbe possibile indagare attraverso la semplice osservazione e attenzione umana. Louis Sander, psicoanalista, considerato padre dell’Infant Research, ha formulato ipotesi di straordinario valore clinico per la comprensione dei processi di cambiamento in psicoterapia e ha strutturato uno dei primi modelli interpretativi descrivendo il ruolo fondamentale dell’autoregolazione nello scambio diadico (Sander, 1962, 1977), sostenendo che il bambino è attivato da una primaria attività endogena che però deve coordinarsi con quella materna, ossia il bambino ha una motivazione intrinseca a scoprire le regolarità, a generare aspettative e agire in base ad esse. Si inizia a descrivere in termini di sistema diadico il rapporto madre-bambino e si strutturano nuovi metodi per osservare la relazione simultanea dei due partner nella regolazione del rapporto interpersonale, inaugurando così in psicoanalisi un nuovo paradigma scientifico, quello in cui anche il bambino è interattivo. In altri termini l’interattività, con la relativa regolazione emozionale e cognitiva, è il fulcro in cui si viene a costruire una mente: non più per le pulsioni, ma per un apprendimento interpersonale, che è anche apprendimento all’essere motivato ad apprendere. La ricerca relativa alla microanalisi dell’interazione vis-à-vis madre-bambino (Brazelton, Kozlowski, Main, 1974; Lewis, Rosenblum, 1974; Stern, 1971; Trevarthen, 1974) introduce il paradigma dell’influenzamento bidirezionale nella comunicazione primaria. Si mettono a punto costrutti più articolati che consentano di comprendere e descrivere in modo più complesso la realtà del fenomeno indagato. Nella comunicazione genitore bambino, sono osservabili scambi di sguardi, sorrisi e vocalizzazioni, che si presentano con una alternanza di turni nella diade, tipici del dialogo tra adulti e rilevabili solo con tecniche microanalitiche. Si sottolinea la tendenza innata nel neonato a comunicare, che si esprime già nel secondo mese di vita (Shaffer, 1977): il bimbo piccolo, a partire dai due mesi, è in grado di iniziare una comunicazione di tipo intenzionale con il genitore orientando il capo verso di lui, nonché concludendo la conversazione ad esempio girando altrove lo sguardo; si possono osservare delle protoconversazioni (Bateson, 1979) attraverso l’alternanza dei turni e lo scambio emotivo (Sameroff, Emde, 1989). La comunicazione genitore- bambino viene regolata da schemi della relazione che consentono ai membri della diade di predire e anticipare il comportamento dell’altro (Cohn, Tronick, 1987). La mutua regolazione, emozionale e cognitiva, tra neonato e caregiver attraversa momenti di sintonizzazione e momenti di “rottura”. La Beebe (2006) trasferisce questa osservazione, fatta sui neonati, all’analisi degli adulti. Quanto menzionato nelle ricerche sui bambini piccoli, viene oggi utilizzato, ed anzi è centrale, nella psicoanalisi degli adulti: anche qui si considera la diade interattiva dell’analista col suo paziente. Anzi di quello specifico analista con quel suo paziente. L’analista pertanto deve essere attrezzato, attraverso la sua formazione (analisi personale e supervisioni) a cogliere la comunicazione non verbale, e interattiva, col suo paziente, nonché a monitorare la propria risonanza emozionale (di qui una espansione del concetto di controtransfert) per rispondere adeguatamente, e non solo nella connotazione delle parole, a ciò che il paziente inconsciamente gli sta chiedendo, e velatamente dicendo. Si fa attenzione dunque nella psicoanalisi attuale, non solo per i bambini, ma anche per gli adulti, agli andamenti di sincronizzazione e di empatia, rispetto a momenti di rottura, per poter poi essere in grado, da parte dell’analista, di promuovere nel paziente i momenti di riparazione. Nell’evoluzione della psicoanalisi il passaggio dalla centralità della pulsione all’affetto, come concetto motivazionale centrale per la ricerca psicoanalitica, è stato un apporto concettuale che ha consentito di considerare l’affettività non più come un prodotto di meccanismi intrapsichici isolati, ma come una proprietà del sistema di mutua regolazione bambino-caregiver e motore di quanto viene appreso: anche nell’adulto l’affettività, o meglio la individuale struttura affettiva, emozionale inconsapevole, è la matrice che determina la qualità di ogni successivo apprendimento; e dunque del Mindbrain di un individuo (Imbasciati, Cena, 2017). Stern, ha descritto la regolazione diadica delle esperienze affettive, attraverso la condivisione intersoggettiva di processi di reciproca sintonia tra madre e bambino, e si è focalizzato sui progressivi livelli di complessità dei primi processi di regolazione madre-neonato descritti, come “sintonizzazioni affettive” (Stern, 1985): microregolazioni al di fuori di ogni consapevolezza che riguardano momenti interattivi tra il neonato e le figure di accudimento. Attraverso il concetto di “sintonizzazione affettiva”, Stern richiama una similitudine tra gli scambi affettivi che intercorrono nella relazione primaria madre-bambino, e quelli tra terapeuta e paziente (anche adulto): il genitore si sintonizza con lo stato affettivo del bimbo e, rispecchiandone il comportamento, lo traduce in differenti modalità espressive utilizzando canali comunicativi diversi; lo scambio costituisce la base su cui il bambino fonda i propri apprendimenti e impara a modulare le sue risposte verso il mondo esterno. Questi particolari aspetti sarebbero alla base delle potenzialità trasformative delle relazioni primarie e terapeutiche. Quanto sopra menzionato per la clinica ha comportato nella psicoanalisi contemporanea importanti cambiamenti teorici. Innanzitutto l’attenzione, non tanto a quello che dice un paziente, ma a “sentire” attraverso i propri sentimenti ciò che si pensa che senta il paziente. Ciò comporta una non indifferente formazione dell’analista per ciò che concerne la comunicazione non verbale. Si tratta poi, per l’analista, di trovare il modo adatto per comunicare al paziente una comprensione più ampia, grazie a quella dell’analista, dei sentimenti che in lui scorrono nella relazione con l’analista. Questo si può ottenere non solo attraverso una “interpretazione”, ma anche con altre modalità comunicative: espressioni mimico-corporee, sguardi, gesti. Tutto ciò non è stato ancora assimilato nella cultura corrente. D’altra parte il caos italiano nel panorama delle psicoterapie (Imbasciati A., 2005, 2008, 2013, 2015a, 2016; Imbasciati, Cena, 2017) tuttora alimenta questa arretratezza e confusione. Di qui la cautela di una persona che volesse trovarsi uno psicoterapeuta. Con lo sviluppo dei modelli relazionali e l’apporto della ricerca sperimentale dell’Infant Research, nel mainstream della psicoanalisi si è avuto un riavvicinamento alla teoria dell’attaccamento (Steele H., Steele M., 1998), rispetto alle iniziali contrapposizioni teoriche: il legame del bimbo con le figure affettive non viene più inteso come dipendente dalla soddisfazione dei bisogni di alimentazione, ma dalla necessità primaria di stabilire relazioni. La psicoanalisi attuale (Ammanniti, Stern, 1982; Fonagy, 2001) condivide l’assunto fondamentale della Teoria dell’Attaccamento per il quale la efficacia di una relazione è basata sul bisogno fondamentale dell’uomo di essere aiutato a capire meglio ciò che lo agita emozionalmente, attraverso un ampliamento di comprensione che l’analista gli può in sintonia offrire. Una importante area di integrazione tra la psicoanalisi e la teoria dell’attaccamento può essere individuata nei modelli operativi interni e nei concetti di identificazione proiettiva: l’identificazione proiettiva (Klein, 1955) esprimerebbe un’esperienza preverbale, corrispondente agli scambi obbligati e automatici tra i membri della diade; le attribuzioni genitoriali e il loro corrispettivo inconscio, dato dalle identificazioni proiettive, sarebbero aspetti del modello operativo interno che il caregiver ha di sé in rapporto al legame di attaccamento, e come tale trasmesse e interiorizzate dal bimbo (Lieberman et al., 1997). Il concetto di attribuzioni genitoriali della teoria cognitivista trova a sua volta una integrazione con il concetto di identificazione proiettiva e introiettiva della psicoanalisi: i genitori rivolgono delle attribuzioni al proprio bimbo e questi le assume; attribuzioni positive favoriscono un buon sviluppo; attribuzioni negative o contradditorie possono ostacolare lo sviluppo del senso del sé nel bimbo. Gli stili di attaccamento-accudimento dei genitori manifestano il funzionamento mentale del genitore stesso, e a seguito del legame di cura e accudimento del bimbo si trasmettono a formare le sue strutture psichiche di base. Fonagy (Fonagy, Target, 2001), in collegamento con gli studi sugli stili di attaccamento e la trasmissione transgenerazionale di caratteristiche funzionali di base (ovvero strutture di personalità), trasmesse nelle vicende connesse all’accudimento-attaccamento, evidenzia come l’origine delle strutture primarie della mente comporta il formarsi della “funzione riflessiva”, cioè quella capacità individuale di rappresentarsi i propri processi mentali e quelli degli altri. Si tratta delle capacità di coscienza. Le caratteristiche di contenimento (Winnicott, 1965), di rispecchiamento (Winnicott, 1967) e di rêverie (Bion, 1967) cioè la capacità della madre di accogliere e di trasformare le emozioni negative che il bimbo le sta proiettando, così come le caratteristiche della funzione riflessiva del genitore (Fonagy, Target, 2001), possono essere sovrapponibili all’ipotesi formulata dalla teoria dell’attaccamento circa la responsività genitoriale e la funzione di trasformazione e regolazione emotiva svolta dal caregiver. In altri termini la psicoanalisi degli adulti si svolge oggi con modalità analoghe a quelle per cui nei neonati e nei bambini si è riscontrato un cambiamento positivo nella strutturazione del loro sviluppo mentale. L’analista dovrebbe funzionare come un buon caregiver, senza però l’indulgenza che occorre per i piccoli: impresa difficile. Le ricerche sull’attaccamento approfondiscono in particolare il ruolo fondamentale delle prime esperienze relazionali nella strutturazione della mente, che si sviluppa nelle relazioni con i caregiver comportando processi cognitivi di ciò che accade nella elaborazione delle informazioni e nella formazione dell’attività simbolica. L’importanza delle relazioni con le prime figure di attaccamento rimanda agli studi sull’epoca neonatale e prenatale (Imbasciati, Dabrassi, Cena, 2007; 2011; Imbasciati, Cena, 2015a, b; 2017). In questi ultimi lustri si sono verificati mutamenti di setting, di modalità di approccio alla terapia ai piccoli pazienti (Algini, 2007) e del prendersi cura dei bambini e dei loro genitori (Cena, Imbasciati, Baldoni, 2012) che hanno consentito effetti innovativi entro gli stessi modelli psicoanalitici classici più tradizionali, anche con gli adulti. Le modalità dell’Infant Observation vengono estese alla clinica degli adulti, nei vari contesti terapeutici (Vallino, Macciò, 2004): attraverso modalità di approccio come quelle di “consultazione partecipata” (Vallino, 1998, 2002, 2004) si è delineata una psicoanalisi precoce da affidare ai genitori in cooperazione con lo psicoterapeuta (Vallino, 2009); la relazione genitore-bambino è considerata il fulcro dell’intervento e gli aspetti emotivo-affettivi di tale relazione sono considerati parte integrante della buona riuscita della terapia. La psicoanalisi dei bambini, coniugata oggi con le ricerche dell’Infant Research, della Teoria dell’Attaccamento e le relative psicoterapie, hanno dunque prodotto un notevole cambiamento in tutta la psicoanalisi, in una integrazione che si trova inoltre in sintonia con quanto oggi ci dicono le Neuroscienze (Imbasciati, Cena, 2017; Cena, Imbasciati, 2014) sulla costruzione delle reti neurali ad opera della relazionalità ed in particolare nella diade bambino/ caregiver nel periodo perinatale e della prima infanzia. Il cammino è stato laborioso, forse lento: le difficoltà di aggiornamento per gli analisti e gli psicoterapeuti operatori sono notevoli. Per quanto sopra esposto la presente appendice vuole offrire una visione sintetica, ma soprattutto uno stimolo ad approfondire la propria formazione nella bibliografia qui riportata.

Cena Loredana Come cambia la psicoanalisi con l'analisi dei bambini

Cena Loredana
2017-01-01

Abstract

Freud non si interessava ai bambini per una loro possibile analisi: inquadrò lo sviluppo infantile nella sua teoria energetico-pulsionale. Il bambino attraverserebbe una serie di fasi sessuali, nelle quali sorgerebbero determinate pulsioni, che organizzerebbero lo sviluppo a seconda degli “oggetti” incontrati nella realtà. Il modello è fondato sulle pulsioni e sulla scarica energetica: l’oggetto e le relazioni sono funzionali alla scarica dell’energia libidica. Non si tratta quindi di una teoria relazionale. Al tempo di Freud si riteneva che lo sviluppo psichico fosse da attribuirsi prevalentemente alla genetica: in questo caso lo sviluppo avrebbe dovuto essere uguale per tutti. La teoria freudiana di forze endogene (pulsioni) spiega l’esistenza di una variabilità individuale con il concetto di “investimento” sui vari oggetti della realtà (Imbasciati, 2005 b). L’importanza delle relazioni viene messa in evidenza quando alcuni psicoanalisti cominciano ad occuparsi di bambini: Jung, Abraham. La psicoanalisi dei bambini si presenta come un’arte difficile, tuttavia Abraham ne incoraggia l’esercizio tra i suoi allievi: farà così anche con Melanie Klein (Geissmann, 1992). Intanto la figlia di Freud, Anna (1930, 1943, 1950, 1957), insieme a Doroty Burlingham, nelle Hampstaed Nurseries (Freud A., Burlingham, 1943), inizia ad osservare i bambini da 0 a 4 anni, e le loro problematiche dovute alla separazione dalla loro madre (Freud A., 1949). Gli studi di Ferenczi e di Melanie Klein hanno il privilegio di aver messo in evidenza il primo periodo dello sviluppo infantile come momento fondamentale nella vita di ogni individuo e l’importanza delle prime relazioni con la madre nella strutturazione dei processi psichici. Con Ferenczi (1927, 1929, 1932) la psicoanalisi inizia a riconoscere l’importanza di allargare il focus dell’attenzione agli aspetti interpersonali del bambino piccolo con i suoi genitori, ed evidenzia come il neonato sia dotato dalla nascita di una predisposizione alla relazione. Si studiano i processi mentali che guidano la relazione del genitore rispetto al bambino, attraverso l’accudimento, dando importanza alla manifestazione di scambi affettivi rispetto ad una carenza dovuta a trascuratezza e abbandono. La Klein (1932) mette a punto la sua tecnica di analisi attraverso il gioco: con la sua opera (1921-1958) si afferma l’idea che, se si riesce ad intervenire precocemente con appropriati trattamenti, proprio attraverso il gioco, è possibile riscontrare miglioramenti o evitare stati anche gravi di disagio. La Klein dimostra come la tecnica del gioco con i bambini permetta di rispettare nell’analisi infantile i principi teorici e tecnici su cui si fonda l’analisi degli adulti.Dalle concezioni energetico-pulsionali freudiane, cioè da una concezione endogenista e intraindividuale, la psicoanalisi, attraverso l’analisi dei bambini, evolve verso una concezione relazionale. L’“oggetto”, obbiettivo della pulsione freudiana, diventa strutturante esso stesso per lo sviluppo (Greenberg, Mitchell, 1983): lo spostamento di interesse dalla pulsione all’oggetto relazionale implica una maggiore considerazione delle figure di accudimento, dell’ambiente e delle rappresentazioni interne della realtà, in cui è immerso il neonato. Si sviluppano le teorie oggettuali o della Relazione d’oggetto, che ricevono i contributi più importanti delle scuole psicoanalitiche inglesi (Klein, Balint, Fairbairn, Winnicott, Bion). Winnicott (1958) descrive l’elaborazione dei vissuti materni nei confronti del neonato con i concetti di “madre sufficientemente buona”, di “contenimento” materno e di “preoccupazione materna primaria” (1956); e contemporaneamente considera lo sviluppo affettivo del bimbo in rapporto con il suo ambiente (1941, 1965), sottolineando che non esiste un bambino, ma un “bambino con la sua mamma”. La diade madre-bambino è una “unità” e come tale va studiata, per essere veramente compresa nella complessità delle sue manifestazioni. La metodologia dell’Infant-Observation, messa a punto dalla Bick (1964) e poi dalla Harris (1980), dà una svolta decisiva alla psicoanalisi con l’osservazione del bambino molto piccolo nel suo ambiente, effettuata da un osservatore con una rigorosa procedura. Questa metodologia di osservazione del lattante viene inserita come addestramento alla psicoterapia infantile presso la Tavistock Clinic di Londra: l’Infant Observation è utile come metodologia formativa in quanto consente all’osservatore di fare una esperienza della crescita e dello sviluppo di un bimbo fino ai due anni, ma soprattutto di partecipare all’atmosfera emozionale nella quale il bambino vive e cresce; affina la sua capacità di rapportare gli stati emozionali della madre con quelli che osserva nel bambino, e di confrontare il supporto fornito dalla madre in rapporto ai bisogni fisici, emotivi e cognitivi del bambino stesso (Imbasciati, Cena, 1992). La necessità di osservare il bambino all’interno della rete interattiva che lo circonda (Greenberg, Mitchell, 1983) porta a concepire un “bambino relazionale”. Con la Klein, Balint (1952), Fairbairn (1952), Winnicott, Bion (1962) la psicoanalisi elabora i contributi più importanti alla evoluzione di un modello osservativo-relazionale. Successivamente i contributi della Mahler (Mahler et al., 1975) si orienteranno progressivamente all’osservazione non soltanto del bambino, ma anche della relazione con la madre. Negli anni ‘70 un approccio etologico consente di ampliare la metodologia dell’osservazione diretta come metodo scientifico, attribuendo molta importanza all’ambiente naturale in cui il comportamento si manifesta spontaneamente. Bowlby, psicoanalista, si interessa di etologia e attraverso le sue intuizioni sviluppa quella che viene denominata la Teoria dell’Attaccamento: questa consente di dare una svolta importante allo studio delle relazioni. La teoria dell’attaccamento (Bowlby, 1969-1982, 1973, 1980), con le osservazioni e gli studi sulle primissime interazioni neonato-caregiver, fornisce evidenze sperimentali di come la psiche infantile si organizzi e si modelli nelle specifiche relazioni che il bambino instaura con le figure affettive di riferimento. Con il termine “attaccamento” viene individuata quella modalità presente dalla nascita, per cui si ricerca la vicinanza delle persone importanti per la sopravvivenza e la protezione. Lo sviluppo dell’attaccamento viene localizzato nel primo anno di vita, periodo definito “sensibile”: il bimbo inizia ad interiorizzare le relazioni, trasformandole in schemi cognitivi, modelli rappresentativi interni di ciò che accade con le figure di accudimento, e di sé nella relazione. Sulla base di tali rappresentazioni il bimbo diventa progressivamente più o meno capace, o incapace, e comunque con modi squisitamente propri, di adottare comportamenti intenzionali in relazione alle esigenze dell’altro. Bowlby evidenzia come la separazione, (1973) o la perdita, di una figura di attaccamento (1980) possano dare origine a disturbi psicopatologici. La sua più nota allieva, la Ainsworth, struttura un setting sperimentale per la valutazione della relazione di attaccamento, la Strange Situation (Ainsworth et al., 1978), e sottolinea come la qualità dell’attaccamento dipenda dalle contingenze ambientali, dagli atteggiamenti e dal grado di “sensibilità” e “responsività” del genitore (Ainsworth, 1979): sono queste che danno origine a diversi “pattern” di attaccamento (Ainsworth, 1985), che si strutturano come schemi operativi relazionali. Il bimbo connota il caregiver in funzione della sua risposta ai suoi comportamenti e questo struttura un particolare “stile” con cui viene espresso il pattern d’attaccamento che caratterizza quella specifica relazione. In funzione della risposta genitoriale, il sistema interattivo si organizzerà attraverso un processo di regolazione del comportamento, con modalità non unidirezionali, ma reciproche, in cui è rilevante la capacità di intuizione e comprensione nel bimbo delle emozioni e dei sentimenti del suo caregiver e la sua capacità di adattarvisi. Nella relazione di attaccamento si formano gli Internal Working Models (I.W.M.), o Modelli operativi interni (M.O.I.), che entrano ad organizzare il comportamento dell’individuo anche come modalità cognitive specifiche. La predisposizione a ricercare la presenza di un adulto che eserciti la funzione di protezione e cura, sicurezza e conforto e si costituisca come “base sicura” da cui il bimbo possa partire per l’esplorazione del mondo circostante (Bowlby, 1988), costituisce una spinta motivazionale definita di tipo primario, in quanto innata e universale, poiché può essere osservata in tutti i soggetti, nelle varie culture. Questi presupposti, su cui si fonda la teoria dell’attaccamento, si pongono in contraddizione con l’approccio psicoanalitico classico e la concezione pulsionale freudiana, secondo cui il bambino svilupperebbe legami di attaccamento solo a seguito della soddisfazione dei bisogni fisiologici. Le ricerche, dal dopoguerra fino agli anni ‘70, considerano prevalentemente la relazione madre-bambino poiché la figura femminile è tradizionalmente la più coinvolta e impegnata nella cura dei figli. Bowlby (1969) ritiene che l’attaccamento sia prevalente verso una figura affettiva di riferimento, la madre, ma è possibile si sviluppino altre relazioni di attaccamento, a partire da quelle col padre: durante il primo anno il bambino stabilisce più di un legame di attaccamento, e questo viene confermato da osservazioni empiriche (Schaffer, Emerson,1964). Altre allieve di Bowlby proseguono le ricerche sperimentali sui pattern relazionali (Main, 1993), individuando nelle prospettive evoluzionistiche dell’attaccamento nuovi modelli esplicativi (Crittenden, 2008). Dagli anni ‘70 si assiste ad un importante e intenso sviluppo di ricerche sull’infanzia condotte secondo approcci teorici diversi, che amplia considerevolmente i dati empirici a disposizione dei ricercatori. L’approccio osservativo viene supportato da tecniche sofisticate e ricerche scientifiche sperimentali che rendono possibile una diretta convergenza con la psicologia dell’età evolutiva attraverso il formarsi di un’area di ricerca condivisa, l’Infant Research, che mette in discussione alcuni assunti classici della teoria freudiana, come quello del bambino monadico pulsionale. Il bambino piccolo viene osservato nelle relazioni con i suoi caregiver (Stern, 1974; Tronick et.al. 1978; Trevarthen, 1979; Fogel, 1982; Sander, 1987) con l’utilizzo di procedure diverse e nuove tecnologie: l’osservazione ha il suo focus sulla interazione tra il bimbo e i suoi caregiver (Imbasciati, Cena, 2010) e presenta complessità tali che il ricercatore e il clinico necessitano di un equipaggiamento teorico e strumentale che consenta di trarre quelle informazioni indispensabili per strutturare un intervento di aiuto adeguato. La difficoltà a descrivere la complessità dell’interazione, negli aspetti e attraverso le sfumature che passano nella comunicazione non verbale tra genitore e bambino implica che l’osservatore abbia acquisito una specifica sensibilità personale, affinata attraverso peculiari percorsi formativi: nella metodologia osservativa dell’interazione genitore-bambino vengono utilizzate procedure audiovisive di video-osservazione (Schaffer, 1977) che consentono di ritornare più volte a rivedere quanto accade nell’interazione, con una tecnica di analisi sequenziale delle interazioni che vengono osservate (Bakerman, 1978). Gli strumenti tecnologici consentono di filmare i momenti di osservazione diretta delle interazioni del singolo e della relazione genitore-bambino, sui quali l’osservatore può ritornare più volte prima di impostare un qualche intervento. Questo permette di rilevare aspetti dello sviluppo del bambino e delle sue interazioni che possono essere a disposizione del clinico e del ricercatore offrendo la possibilità di analizzare con modalità microanalitiche quanto non sarebbe possibile indagare attraverso la semplice osservazione e attenzione umana. Louis Sander, psicoanalista, considerato padre dell’Infant Research, ha formulato ipotesi di straordinario valore clinico per la comprensione dei processi di cambiamento in psicoterapia e ha strutturato uno dei primi modelli interpretativi descrivendo il ruolo fondamentale dell’autoregolazione nello scambio diadico (Sander, 1962, 1977), sostenendo che il bambino è attivato da una primaria attività endogena che però deve coordinarsi con quella materna, ossia il bambino ha una motivazione intrinseca a scoprire le regolarità, a generare aspettative e agire in base ad esse. Si inizia a descrivere in termini di sistema diadico il rapporto madre-bambino e si strutturano nuovi metodi per osservare la relazione simultanea dei due partner nella regolazione del rapporto interpersonale, inaugurando così in psicoanalisi un nuovo paradigma scientifico, quello in cui anche il bambino è interattivo. In altri termini l’interattività, con la relativa regolazione emozionale e cognitiva, è il fulcro in cui si viene a costruire una mente: non più per le pulsioni, ma per un apprendimento interpersonale, che è anche apprendimento all’essere motivato ad apprendere. La ricerca relativa alla microanalisi dell’interazione vis-à-vis madre-bambino (Brazelton, Kozlowski, Main, 1974; Lewis, Rosenblum, 1974; Stern, 1971; Trevarthen, 1974) introduce il paradigma dell’influenzamento bidirezionale nella comunicazione primaria. Si mettono a punto costrutti più articolati che consentano di comprendere e descrivere in modo più complesso la realtà del fenomeno indagato. Nella comunicazione genitore bambino, sono osservabili scambi di sguardi, sorrisi e vocalizzazioni, che si presentano con una alternanza di turni nella diade, tipici del dialogo tra adulti e rilevabili solo con tecniche microanalitiche. Si sottolinea la tendenza innata nel neonato a comunicare, che si esprime già nel secondo mese di vita (Shaffer, 1977): il bimbo piccolo, a partire dai due mesi, è in grado di iniziare una comunicazione di tipo intenzionale con il genitore orientando il capo verso di lui, nonché concludendo la conversazione ad esempio girando altrove lo sguardo; si possono osservare delle protoconversazioni (Bateson, 1979) attraverso l’alternanza dei turni e lo scambio emotivo (Sameroff, Emde, 1989). La comunicazione genitore- bambino viene regolata da schemi della relazione che consentono ai membri della diade di predire e anticipare il comportamento dell’altro (Cohn, Tronick, 1987). La mutua regolazione, emozionale e cognitiva, tra neonato e caregiver attraversa momenti di sintonizzazione e momenti di “rottura”. La Beebe (2006) trasferisce questa osservazione, fatta sui neonati, all’analisi degli adulti. Quanto menzionato nelle ricerche sui bambini piccoli, viene oggi utilizzato, ed anzi è centrale, nella psicoanalisi degli adulti: anche qui si considera la diade interattiva dell’analista col suo paziente. Anzi di quello specifico analista con quel suo paziente. L’analista pertanto deve essere attrezzato, attraverso la sua formazione (analisi personale e supervisioni) a cogliere la comunicazione non verbale, e interattiva, col suo paziente, nonché a monitorare la propria risonanza emozionale (di qui una espansione del concetto di controtransfert) per rispondere adeguatamente, e non solo nella connotazione delle parole, a ciò che il paziente inconsciamente gli sta chiedendo, e velatamente dicendo. Si fa attenzione dunque nella psicoanalisi attuale, non solo per i bambini, ma anche per gli adulti, agli andamenti di sincronizzazione e di empatia, rispetto a momenti di rottura, per poter poi essere in grado, da parte dell’analista, di promuovere nel paziente i momenti di riparazione. Nell’evoluzione della psicoanalisi il passaggio dalla centralità della pulsione all’affetto, come concetto motivazionale centrale per la ricerca psicoanalitica, è stato un apporto concettuale che ha consentito di considerare l’affettività non più come un prodotto di meccanismi intrapsichici isolati, ma come una proprietà del sistema di mutua regolazione bambino-caregiver e motore di quanto viene appreso: anche nell’adulto l’affettività, o meglio la individuale struttura affettiva, emozionale inconsapevole, è la matrice che determina la qualità di ogni successivo apprendimento; e dunque del Mindbrain di un individuo (Imbasciati, Cena, 2017). Stern, ha descritto la regolazione diadica delle esperienze affettive, attraverso la condivisione intersoggettiva di processi di reciproca sintonia tra madre e bambino, e si è focalizzato sui progressivi livelli di complessità dei primi processi di regolazione madre-neonato descritti, come “sintonizzazioni affettive” (Stern, 1985): microregolazioni al di fuori di ogni consapevolezza che riguardano momenti interattivi tra il neonato e le figure di accudimento. Attraverso il concetto di “sintonizzazione affettiva”, Stern richiama una similitudine tra gli scambi affettivi che intercorrono nella relazione primaria madre-bambino, e quelli tra terapeuta e paziente (anche adulto): il genitore si sintonizza con lo stato affettivo del bimbo e, rispecchiandone il comportamento, lo traduce in differenti modalità espressive utilizzando canali comunicativi diversi; lo scambio costituisce la base su cui il bambino fonda i propri apprendimenti e impara a modulare le sue risposte verso il mondo esterno. Questi particolari aspetti sarebbero alla base delle potenzialità trasformative delle relazioni primarie e terapeutiche. Quanto sopra menzionato per la clinica ha comportato nella psicoanalisi contemporanea importanti cambiamenti teorici. Innanzitutto l’attenzione, non tanto a quello che dice un paziente, ma a “sentire” attraverso i propri sentimenti ciò che si pensa che senta il paziente. Ciò comporta una non indifferente formazione dell’analista per ciò che concerne la comunicazione non verbale. Si tratta poi, per l’analista, di trovare il modo adatto per comunicare al paziente una comprensione più ampia, grazie a quella dell’analista, dei sentimenti che in lui scorrono nella relazione con l’analista. Questo si può ottenere non solo attraverso una “interpretazione”, ma anche con altre modalità comunicative: espressioni mimico-corporee, sguardi, gesti. Tutto ciò non è stato ancora assimilato nella cultura corrente. D’altra parte il caos italiano nel panorama delle psicoterapie (Imbasciati A., 2005, 2008, 2013, 2015a, 2016; Imbasciati, Cena, 2017) tuttora alimenta questa arretratezza e confusione. Di qui la cautela di una persona che volesse trovarsi uno psicoterapeuta. Con lo sviluppo dei modelli relazionali e l’apporto della ricerca sperimentale dell’Infant Research, nel mainstream della psicoanalisi si è avuto un riavvicinamento alla teoria dell’attaccamento (Steele H., Steele M., 1998), rispetto alle iniziali contrapposizioni teoriche: il legame del bimbo con le figure affettive non viene più inteso come dipendente dalla soddisfazione dei bisogni di alimentazione, ma dalla necessità primaria di stabilire relazioni. La psicoanalisi attuale (Ammanniti, Stern, 1982; Fonagy, 2001) condivide l’assunto fondamentale della Teoria dell’Attaccamento per il quale la efficacia di una relazione è basata sul bisogno fondamentale dell’uomo di essere aiutato a capire meglio ciò che lo agita emozionalmente, attraverso un ampliamento di comprensione che l’analista gli può in sintonia offrire. Una importante area di integrazione tra la psicoanalisi e la teoria dell’attaccamento può essere individuata nei modelli operativi interni e nei concetti di identificazione proiettiva: l’identificazione proiettiva (Klein, 1955) esprimerebbe un’esperienza preverbale, corrispondente agli scambi obbligati e automatici tra i membri della diade; le attribuzioni genitoriali e il loro corrispettivo inconscio, dato dalle identificazioni proiettive, sarebbero aspetti del modello operativo interno che il caregiver ha di sé in rapporto al legame di attaccamento, e come tale trasmesse e interiorizzate dal bimbo (Lieberman et al., 1997). Il concetto di attribuzioni genitoriali della teoria cognitivista trova a sua volta una integrazione con il concetto di identificazione proiettiva e introiettiva della psicoanalisi: i genitori rivolgono delle attribuzioni al proprio bimbo e questi le assume; attribuzioni positive favoriscono un buon sviluppo; attribuzioni negative o contradditorie possono ostacolare lo sviluppo del senso del sé nel bimbo. Gli stili di attaccamento-accudimento dei genitori manifestano il funzionamento mentale del genitore stesso, e a seguito del legame di cura e accudimento del bimbo si trasmettono a formare le sue strutture psichiche di base. Fonagy (Fonagy, Target, 2001), in collegamento con gli studi sugli stili di attaccamento e la trasmissione transgenerazionale di caratteristiche funzionali di base (ovvero strutture di personalità), trasmesse nelle vicende connesse all’accudimento-attaccamento, evidenzia come l’origine delle strutture primarie della mente comporta il formarsi della “funzione riflessiva”, cioè quella capacità individuale di rappresentarsi i propri processi mentali e quelli degli altri. Si tratta delle capacità di coscienza. Le caratteristiche di contenimento (Winnicott, 1965), di rispecchiamento (Winnicott, 1967) e di rêverie (Bion, 1967) cioè la capacità della madre di accogliere e di trasformare le emozioni negative che il bimbo le sta proiettando, così come le caratteristiche della funzione riflessiva del genitore (Fonagy, Target, 2001), possono essere sovrapponibili all’ipotesi formulata dalla teoria dell’attaccamento circa la responsività genitoriale e la funzione di trasformazione e regolazione emotiva svolta dal caregiver. In altri termini la psicoanalisi degli adulti si svolge oggi con modalità analoghe a quelle per cui nei neonati e nei bambini si è riscontrato un cambiamento positivo nella strutturazione del loro sviluppo mentale. L’analista dovrebbe funzionare come un buon caregiver, senza però l’indulgenza che occorre per i piccoli: impresa difficile. Le ricerche sull’attaccamento approfondiscono in particolare il ruolo fondamentale delle prime esperienze relazionali nella strutturazione della mente, che si sviluppa nelle relazioni con i caregiver comportando processi cognitivi di ciò che accade nella elaborazione delle informazioni e nella formazione dell’attività simbolica. L’importanza delle relazioni con le prime figure di attaccamento rimanda agli studi sull’epoca neonatale e prenatale (Imbasciati, Dabrassi, Cena, 2007; 2011; Imbasciati, Cena, 2015a, b; 2017). In questi ultimi lustri si sono verificati mutamenti di setting, di modalità di approccio alla terapia ai piccoli pazienti (Algini, 2007) e del prendersi cura dei bambini e dei loro genitori (Cena, Imbasciati, Baldoni, 2012) che hanno consentito effetti innovativi entro gli stessi modelli psicoanalitici classici più tradizionali, anche con gli adulti. Le modalità dell’Infant Observation vengono estese alla clinica degli adulti, nei vari contesti terapeutici (Vallino, Macciò, 2004): attraverso modalità di approccio come quelle di “consultazione partecipata” (Vallino, 1998, 2002, 2004) si è delineata una psicoanalisi precoce da affidare ai genitori in cooperazione con lo psicoterapeuta (Vallino, 2009); la relazione genitore-bambino è considerata il fulcro dell’intervento e gli aspetti emotivo-affettivi di tale relazione sono considerati parte integrante della buona riuscita della terapia. La psicoanalisi dei bambini, coniugata oggi con le ricerche dell’Infant Research, della Teoria dell’Attaccamento e le relative psicoterapie, hanno dunque prodotto un notevole cambiamento in tutta la psicoanalisi, in una integrazione che si trova inoltre in sintonia con quanto oggi ci dicono le Neuroscienze (Imbasciati, Cena, 2017; Cena, Imbasciati, 2014) sulla costruzione delle reti neurali ad opera della relazionalità ed in particolare nella diade bambino/ caregiver nel periodo perinatale e della prima infanzia. Il cammino è stato laborioso, forse lento: le difficoltà di aggiornamento per gli analisti e gli psicoterapeuti operatori sono notevoli. Per quanto sopra esposto la presente appendice vuole offrire una visione sintetica, ma soprattutto uno stimolo ad approfondire la propria formazione nella bibliografia qui riportata.
2017
9788865314395
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