Vi è attualmente in psicoanalisi un certo consenso sul fatto che sia necessario “qualcosa in più” dell’interpretazione, per portare un cambiamento terapeutico. L’interpretazione, nel senso di rendere consci (nel presupposto di un conscio/inconscio on/off e del primato della coscienza: Imbasciati, 2014) gli impulsi e le fantasie rimosse tramutandoli in verbalizzazioni, può non essere di per sé sufficiente. Allora come fanno le terapie psicoanalitiche a produrre cambiamento? I membri del Boston Change Process Study Group (BCPSG) hanno cominciato a incontrarsi all’inizio del 1995 per riflettere su come individuare il “qualcosa in più”, necessario perché l’incontro terapeutico catalizzi il cambiamento: celebre fu l’articolo “Non interpretative Mechanisms in Psychoanalytic Therapy, Something more than interpretation” (Stern & BGPSG,1998) che destò scalpore nella comunità IPA e fu poi ribadito sette anni dopo (Stern & BCPSG, 2005). La maggior parte dei pazienti ricordano “momenti speciali” di connessione autentica da persona a persona con i loro terapeuti, momenti che hanno cambiato la loro relazione con l’analista e di conseguenza il senso di loro stessi. Questi momenti di incontro intersoggettivo costituiscono una parte centrale del processo di cambiamento terapeutico. Nel testo Il cambiamento in psicoterapia, il The Boston Change Process Study Group (composto da eminenti clinici e ricercatori tra cui: Louis Sander, Daniel Stern, Nadia Bruschweiler-Stern., Edward Tronick, Karlen Lyons-Ruth) fa riferimento ad una ridefinizione del funzionamento del processo terapeutico. Gli autori asseriscono che la qualità della relazione terapeutica stessa è condizione sufficiente per il cambiamento terapeutico. L’interpretazione, considerata nella teoria psicoanalitica freudiana l’evento nodale, che si dispiega intorno alla relazione transferale, viene riconsiderata: non è essa stessa che cambia il paziente, ma qualcosa di più che la accompagna, anzi, nei successivi studi anche di altri autori si delinea un modello che si focalizza, non tanto sulla appropriatezza dell’interpretazione che si presumeva agisse il cambiamento, sul paziente, quanto su un processo reciproco, nel quale, in una relazione implicita (vale a dire agita senza essere stata individuata dall’interpretazione: si ricordi al proposito il concetto di memoria implicita), opera essa stessa il cambiamento. Questo avviene in “momenti di incontro”, attraverso modificazioni dei “modi di stare con”. Ovvero il cambiamento è dato dalla modulazione della relazione terapeutica stessa. Nella relazione si crea qualche cosa di nuovo che modifica l’ambiente intersoggettivo. L’esperienza passata viene ricontestualizzata nel presente, ma non come memoria dichiarativa, bensì come esperienza emozionale, implicita, che diventa attuale nella relazione, al di là di una sua verbalizzazione, cosicché il soggetto si ritrova a operare in uno scenario mentale diverso, che produce nuovi comportamenti e nuove esperienze nel presente e nel futuro. Non c’è più un terapeuta che cambia un paziente, ma due persone che reciprocamente sia cambiano l’un l’altro. Lungo lo sviluppo di questo modello, quelli che in precedenza erano stati accantonati come “fattori secondari” di cambiamento rispetto alla interpretazione, diventano invece primari agenti di cambiamento: quando accompagnano l’interpretazione producono un cambiamento, ma questo non sarebbe dato dall’interpretazione in sé; non dunque dalle parole che interpretano, bensì da qualcosa di più impalpabile, emozionale, che le può accompagnare. Secondo l’approccio inaugurato dal gruppo Stern, l’incontro tra terapeuta e paziente è preceduto da un insieme di “momenti presenti” nei quali ci si muove soggettivamente l’uno verso l’altro. Quando un momento presente (Stern, 2004) assume una forte valenza affettiva, diviene rilevante nel processo terapeutico, ed è definito “momento ora”. Quando viene “riconosciuto” e accolto da entrambi i partner, durante la relazione terapeutica, porterebbe ad una reciproca sintonia, a un vero momento di incontro e di intesa emotiva. I “momenti di incontro” costituiscono l’evento focale che agisce all’interno di una “relazione implicita condivisa” e che sono in grado di cambiarla, modificando la conoscenza implicita, sia intrapsichica sia interpersonale. Questa “conoscenza relazionale implicita” segna un cambiamento in uno stato diadico, ricollegabile all’emergere dei “momenti di incontro” tra i due soggetti in interazione. Gran parte dell’ambiente intersoggettivo deriva dalla conoscenza relazionale implicita, che si ricostruisce nel corso della terapia: il processo di cambiamento avviene durante la riattualizzazione della relazione implicita condivisa durante i “momenti di incontro”, aprendo in questo modo nuove e feconde prospettive al cambiamento terapeutico. Il cambiamento terapeutico avviene: 1) in piccoli momenti meno carichi emotivamente ma molto pregnanti, come i “momenti ora” e “momenti di incontro”; 2) si verifica nel flusso attuale delle mosse relazionali di ciascun partner a livello locale; 3) nella conoscenza relazionale implicita riproponendo modi più coerenti di stare insieme; 4) attraverso un processo di riconoscimento della specificità dell’adattamento delle iniziative dei due partner. Il Boston Change Process Study Group ha proposto pertanto di cambiare la cornice concettuale secondo cui il cambiamento terapeutico dipende dalla qualità delle interpretazioni dell’analista: lavorando da una prospettiva diadica, si lavora in una concezione della qualità interna della mente, in un modello relazionale che enfatizza le caratteristiche del processo tra due persone. Da questo punto di vista, la “qualità della relazione” è data dalla ricerca di direzionalità e adattamento, e dai tentativi di ampliare la gamma di esperienze emozionali che possono essere portate nella relazione terapeutica. Nella misura in cui questi processi diadici vengono compresi, può emergere nella relazione terapeutica un sentimento di fiducia. Questi processi dinamici una volta attivati si muovono in direzione di una crescente integrazione, coerenza e scioltezza nella capacità del paziente di regolare il suo equilibrio all’interno di scambi significativi con gli altri. Il paradigma di cambiamento del Boston Change Process Study Group valorizza le singole sequenze del processo terapeutico come un percorso emozionale su cui si inscrivono momenti relazionali rilevanti che ne modificano il contesto intersoggettivo. Un “momento ora” che venga colto dal punto di vista terapeutico e compreso da entrambi i soggetti della relazione è un “momento di incontro”. Così avviene nella relazione genitore-bambino: il “momento di incontro” è molto specifico; nella sua costruzione ciascun partner ha apportato attivamente un contributo unico e autentico di se stesso come persona, non in termini di teoria o di tecnica. Quando il terapeuta (soprattutto), ma anche il paziente, sono alle prese con il momento ora, e il paziente lo esplora e lo vive, questo può diventare un “momento di incontro”. La creazione di un “momento di incontro” è frutto di alcuni elementi essenziali: il terapeuta deve usare un aspetto specifico della propria individualità, che contiene una connotazione personale. I due soggetti si incontrano in quel momento come persone relativamente svelate, non nascoste dietro ai loro rispettivi e ordinari ruoli della terapia. Inoltre, le azioni che costituiscono il “momento di incontro” non sono di solito consuete, abituali, o tantomeno tecniche: devono essere nuove e forgiate per soddisfare la particolarità del momento. Ciò implica naturalmente una certa dose di empatia, un’apertura a una nuova valutazione affettiva e cognitiva, il segnale di una sintonizzazione affettiva, un punto di vista che rispecchia e ratifica che ciò che sta avvenendo appartiene al campo della “relazione implicita condivisa”, cioè a uno stato diadico primitivo, che inconsuetamente diventa attuale, specifico dei partecipanti. Il “momento di incontro” è l’evento nodale di questo processo, poiché è il punto in cui viene modificato il contesto intersoggettivo, cambiando così la conoscenza relazionale implicita della precedente relazione paziente-terapeuta. Anche altri autori hanno riconosciuto che il “momento” svolge un ruolo trasformativo fondamentale: il concetto è stato sviluppato da Lachmann e Beebe (1996) con particolare riferimento al neonato. Si può affermare che tutta la progressiva evoluzione della psicoanalisi infantile è stata il fattore del progresso dell’intera psicoanalisi rispetto al modello freudiano originale. I “momenti ora” possono anche portare direttamente a un’interpretazione e, a sua volta, l’interpretazione può portare a “momenti di incontro” o viceversa. Un’interpretazione può così permettere al paziente di vedere se stesso, la sua vita e il suo passato in maniera diversa. Questa presa di coscienza è sempre accompagnata dalla pregnanza di affetti. Se l’interpretazione viene presentata in modo da trasmettere la partecipazione affettiva dell’analista, potrebbe in tal caso verificarsi un “momento di incontro”. Sander (1992) vede questa eventualità come la combinazione delle specificità di due sistemi che sono in risonanza e sintonizzati l’uno all’altro. Questo fenomeno è analogo alla sintonizzazione affettiva osservata nelle interazioni genitore-bambino (Stern, 1985). Se l’analista fa un’ottima interpretazione al momento giusto questa potrà produrre un effetto sul paziente, magari un silenzio, oppure un “Ah” o, più spesso, qualche cosa del tipo: “Sì, è proprio così”. Se l’analista non trasmette la propria partecipazione affettiva (anche con una risposta semplicissima come: “Sì, per lei lo è stato”, detta però con una connotazione personale che proviene da un diverso proprio vissuto), il paziente ha la sensazione che l’analista abbia semplicemente applicato la tecnica. Questo impedirebbe a una nuova esperienza di modificare l’ambiente intersoggettivo noto e, di conseguenza, le interpretazioni diventano molto meno efficaci. Un’interpretazione può occludere un momento ora se lo “spiega” ulteriormente, elaborandolo o generalizzandolo: ne fa perdere la sostanza emozionale. Se il terapeuta non ha in mente altro che la mera interpretazione, se non fa (spesso un fare, più che un dire) qualche cosa che chiarisca la sua reazione e faccia capire che riconosce che il paziente ha avvertito un cambiamento nella relazione, allora non si creerà alcun nuovo contesto intersoggettivo. La variazione dell’ambiente intersoggettivo crea invece un nuovo equilibrio, determinando una riorganizzazione dei processi difensivi. Diventa così possibile la creatività individuale: la “conoscenza relazionale implicita” del paziente viene liberata dai vincoli imposti da ciò che è abituale (Winnicott, 1957). L’Infant Research ha esemplificato l’esame della relazione implicita condivisa, mettendo in evidenza che la comunicazione affettiva e l’intersoggettività sono presenti praticamente fin dall’inizio della vita postnatale (Tronick, 1989; Lachmann, Beebe, 1996). Si ritiene che bambino e caregiver siano entrambi in grado di esprimere affetti e di comprendere le espressioni affettive dell’altro. Questo primitivo sistema di comunicazione continua, silenzioso, a funzionare nel corso di tutta la vita, all’insegna del “non verbale”. Il “momento di incontro”, con il suo caratteristico impegno verso “ciò che sta succedendo qui e ora tra noi”, potrebbe anche non essere mai esplicitato verbalmente, ma ugualmente i “momenti di incontro” vanno a costituire gli eventi nodali che agiscono all’interno della “relazione implicita condivisa”, su di essa, e sono in grado di cambiarla, modificando i vissuti che costituiscono una conoscenza implicita, sia la propria, intrapsichica, che quella interpersonale. La conoscenza relazionale implicita può essere rappresentata come una “forma ancora-da-conoscere”, che continua a operare in maniera implicita per tutta la vita molto prima di disporre della capacità di usare il linguaggio: la conoscenza relazionale implicita opera fuori del focus dell’attenzione e dell’esperienza conscia, senza servirsi della traduzione nel linguaggio; il linguaggio potrebbe anche essere usato al servizio di questo sapere, ma le conoscenze implicite che governano le interazioni intime non sono basate sul linguaggio e non sono traducibili normalmente in forma semantica esplicita. Il riconoscimento di tale sistema di rappresentazione basato sul non simbolico è stato un contributo centrale dell’Infant Research (per esempio, Ainsworth, Blehar, Waters, Wall, 1978; Beebe, Lachmann, 1994; Tronick, 1989). Un “momento di incontro” è l’evento transazionale che riorganizza la conoscenza relazionale implicita del paziente, riorganizzando il campo intersoggettivo tra paziente e terapeuta, ciò a cui Tronick e collaboratori (1998) si riferiscono come a uno “stato diadico di coscienza”. Un momento di incontro si verifica quando il duplice obiettivo delle azioni complementari adatte e del riconoscimento intersoggettivo vengono improvvisamente realizzati. I momenti di incontro vengono costruiti congiuntamente, e richiedono che ognuno dei partner contribuisca fornendo qualcosa di unico. Sander (1995b) ha osservato che la caratteristica essenziale di questi momenti è il fatto che avvenga uno specifico e ben poco consapevole riconoscimento della realtà soggettiva dell’altro. Ciascun partner coglie e ratifica una versione simile di “ciò che sta accadendo ora tra noi”: i momenti di incontro catalizzano il cambiamento nell’interazione bambino-genitore così come anche in qualunque psicoterapia. Nel processo di sviluppo infantile, la conoscenza relazionale implicita comprende la ricorrente mappatura dei movimenti regolatori reciproci tra bambino e caregiver (Tronick, 1989). Questi movimenti regolatori passano a negoziare una serie di sfide emergenti nel corso dei primi anni di vita, come descritto da teorici quali Sander (1962) e Stern (1985). Nel corso di questa continua regolazione reciprocamente costruita, il campo interattivo tra bambino e caregiver diventa più complesso e ben articolato, facendo emergere la possibilità di nuove forme di interazione. Per esempio, una volta che le attese ripetute delle mosse di ciascun partner in un gioco infantile sono stabilite, il palcoscenico è pronto perché entrambi i partner possano “giocare” con quella forma violando le attese stabilite. Questo reciproco senso della possibilità emergente di nuove forme di interazione che si ha tra i due partecipanti, crea un intensificarsi dell’affetto. Beebe e Lachmann (1994) hanno richiamato l’attenzione sull’importanza dei “picchi d’affetto” come uno dei tre principi di salienza nei primi periodi dello sviluppo e nel trattamento psicoanalitico. La regolazione reciproca nella situazione terapeutica descritta da Lachmann e Beebe (1996) è tuttavia diversa dall’idea di “momenti affettivi intensi” proposta da questi due autori: il cambiamento di uno stato diadico è collocato nell’emergere del “momento di incontro” tra i due soggetti in interazione. Queste nuove possibilità interattive creerebbero una regolazione intersoggettiva più complessa e coerente, integrando le nuove capacità evolutive del neonato o raggiungendo un adattamento maggiormente pieno e soddisfacente alle sue attuali capacità e potenzialità affettive. La transizione a un sistema di regolazione reciproca più completa e dunque coerente ruota attorno a un momento di incontro tra genitore e bambino. Questi momenti di riconoscimento intersoggettivo mutato segnano un cambiamento nella gamma di regolazione raggiungibile tra i due partner: essi segnalano un’apertura all’elaborazione di nuove iniziative. Nuove forme di esperienza condivisa possono ora essere elaborate attorno a forme precedentemente non riconosciute. La conoscenza relazionale implicita dei due partner ne verrà di necessità alterata. La nuova potenzialità non soltanto viene messa in atto, ma anche rappresentata come una possibilità futura. Tronick e collaboratori (1998) approfondiscono questo tema della regolazione più completa e coerente collegata a un momento intersoggettivo di incontro degli stati di coscienza diadicamente ampliati. Se consideriamo il concetto freudiano di rimozione, la conoscenza relazionale implicita ci dà un chiaro esempio di come qualcosa di profondamente inconscio possa assumere l’aspetto cosciente di una emozione, o meglio di un avvertimento emotivo, il che significa un processo che appare subito del tutto diverso dagli esempi che la teoria classica descrive. Questa, ritenendo che è l’interpretazione che agisce sul cambiamento, presume che si possa tradurre l’inconscio in pensiero verbale, cioè a un livello di coscienza del tutto più evoluto e non comparabile con quanto oggi sappiamo consistere tutta quella memoria implicita che costituisce l’inconscio: tale presunzione, scontata a priori all’epoca di Freud, appare oggi molto discutibile rispetto al fatto che così si possa verificare il cambiamento dell’assetto emozionale del paziente, il qual cambiamento, peraltro, se viene avvertito, lo è a livello di una coscienza di tipo affettivo, si manifesta efficace nel cambiamento terapeutico. Risulta pertanto assai arduo pensare a un processo quale quello concettualizzato da Freud con una “rimozione” di qualcosa consistente in una verbalizzazione di pensiero. Non si rimuove nessun ostacolo, né tanto meno un “pensiero”: si cambia semplicemente e più nascostamente un assetto di emozioni. È cambiata pertanto la concezione dell’inconscio. Non più considerato in un rapporto dicotomico con “la” coscienza tantomeno concepito secondario a un presunto primato di tale Coscienza e quindi ad essa riconducibile. La coscienza stessa viene ridimensionata, come processo in continuum e mutevole, che talora in varie forme può comparire in un qualche stato della mente; la quale è nella sua essenza inconsapevole (Imbasciati, 2014). Ciò è in accordo con quanto oggi ci dicono le neuroscienze. La mente inizia nel feto, prosegue nel suo sviluppo, per esperienza, nel neonato e nel bimbo e solo dopo il secondo anno di vita si organizza una qualche forma di coscienza. Ma il bambino conosce il mondo molto prima, attraverso le relazioni coi caregiver, e prima ancora conosce la madre: si struttura in lui la conoscenza relazionale implicita, e da questa la sua conoscenza (implicita, cioè senza coscienza) del mondo. Bollas (1996) ha parlato del “conosciuto non pensato”. In ambito strettamente psicoanalitico, il progresso delle concettualizzazioni, cioè teorie che descrivono il funzionamento della mente, può essere condensato intorno e susseguentemente ai due articoli di Stern e BCPSG (1998,2005): più recentemente Foresti (2013) propone che il “something more” debba essere cambiato con un “something about”. Più oltre si è sostenuto (Imbasciati, 2015, cap. 6.8) che si possa affermare un “something than”: il fattore mutativo della psicoanalisi è qualcosa di diverso dall’interpretazione, che qualche volta (si spera) “cavalchi” le parole. I lavori psicoanalitici, tra i quali solo a pochi abbiamo dato qui rilievo, prospettano in termini psicologici di variazione e interazioni di affetti quanto oggi ci confermano le neuroscienze, soprattutto a riguardo del gradiente di arousal emozionale che a livello biochimico cambia le reti neurali. Dobbiamo pertanto riconoscere come la clinica psicoanalitica abbia anticipato di molti lustri quello che oggi viene confermato circa il cambiamento terapeutico, inquadrandolo nei più generali processi di scambio emozionale reciproco che costituiscono lo sviluppo del mentecervello degli umani. Un tale riconoscimento, supportato dalla ricerca ormai da molti anni, non è stato tuttavia ancora assimilato nella cultura media degli psicoterapeuti psicoanalisti. Malgrado le suddette scoperte descritte dalla ricerca clinica psicoanalitica datino ormai da molti anni, la cultura media degli psicoterapeuti è ancora attestata sulle vecchie posizioni della psicoanalisi classica. Questo è in parte dovuto all’Organizzazione che opera nelle Istituzioni psicoanalitiche, ostacolando le innovazioni per mantenere una venerata tradizione (Imbasciati, 2016), ma trova terreno fertile e resistente nel coscienzialismo radicato nella cultura occidentale: credere che si possa curare con le parole (l’interpretazione), anziché con l’emanazione di più impalpabili emozioni, significa infatti appoggiarsi alla coscienza, che alle parole è legata e che è stata rinforzata da una tecnica per lungo tempo purtroppo prescritta.

Cena Loredana- Cosa cambia in psicoanalisi : cosa fa cambiare il paziente? " Momenti di incontro"

Cena Loredana
2017-01-01

Abstract

Vi è attualmente in psicoanalisi un certo consenso sul fatto che sia necessario “qualcosa in più” dell’interpretazione, per portare un cambiamento terapeutico. L’interpretazione, nel senso di rendere consci (nel presupposto di un conscio/inconscio on/off e del primato della coscienza: Imbasciati, 2014) gli impulsi e le fantasie rimosse tramutandoli in verbalizzazioni, può non essere di per sé sufficiente. Allora come fanno le terapie psicoanalitiche a produrre cambiamento? I membri del Boston Change Process Study Group (BCPSG) hanno cominciato a incontrarsi all’inizio del 1995 per riflettere su come individuare il “qualcosa in più”, necessario perché l’incontro terapeutico catalizzi il cambiamento: celebre fu l’articolo “Non interpretative Mechanisms in Psychoanalytic Therapy, Something more than interpretation” (Stern & BGPSG,1998) che destò scalpore nella comunità IPA e fu poi ribadito sette anni dopo (Stern & BCPSG, 2005). La maggior parte dei pazienti ricordano “momenti speciali” di connessione autentica da persona a persona con i loro terapeuti, momenti che hanno cambiato la loro relazione con l’analista e di conseguenza il senso di loro stessi. Questi momenti di incontro intersoggettivo costituiscono una parte centrale del processo di cambiamento terapeutico. Nel testo Il cambiamento in psicoterapia, il The Boston Change Process Study Group (composto da eminenti clinici e ricercatori tra cui: Louis Sander, Daniel Stern, Nadia Bruschweiler-Stern., Edward Tronick, Karlen Lyons-Ruth) fa riferimento ad una ridefinizione del funzionamento del processo terapeutico. Gli autori asseriscono che la qualità della relazione terapeutica stessa è condizione sufficiente per il cambiamento terapeutico. L’interpretazione, considerata nella teoria psicoanalitica freudiana l’evento nodale, che si dispiega intorno alla relazione transferale, viene riconsiderata: non è essa stessa che cambia il paziente, ma qualcosa di più che la accompagna, anzi, nei successivi studi anche di altri autori si delinea un modello che si focalizza, non tanto sulla appropriatezza dell’interpretazione che si presumeva agisse il cambiamento, sul paziente, quanto su un processo reciproco, nel quale, in una relazione implicita (vale a dire agita senza essere stata individuata dall’interpretazione: si ricordi al proposito il concetto di memoria implicita), opera essa stessa il cambiamento. Questo avviene in “momenti di incontro”, attraverso modificazioni dei “modi di stare con”. Ovvero il cambiamento è dato dalla modulazione della relazione terapeutica stessa. Nella relazione si crea qualche cosa di nuovo che modifica l’ambiente intersoggettivo. L’esperienza passata viene ricontestualizzata nel presente, ma non come memoria dichiarativa, bensì come esperienza emozionale, implicita, che diventa attuale nella relazione, al di là di una sua verbalizzazione, cosicché il soggetto si ritrova a operare in uno scenario mentale diverso, che produce nuovi comportamenti e nuove esperienze nel presente e nel futuro. Non c’è più un terapeuta che cambia un paziente, ma due persone che reciprocamente sia cambiano l’un l’altro. Lungo lo sviluppo di questo modello, quelli che in precedenza erano stati accantonati come “fattori secondari” di cambiamento rispetto alla interpretazione, diventano invece primari agenti di cambiamento: quando accompagnano l’interpretazione producono un cambiamento, ma questo non sarebbe dato dall’interpretazione in sé; non dunque dalle parole che interpretano, bensì da qualcosa di più impalpabile, emozionale, che le può accompagnare. Secondo l’approccio inaugurato dal gruppo Stern, l’incontro tra terapeuta e paziente è preceduto da un insieme di “momenti presenti” nei quali ci si muove soggettivamente l’uno verso l’altro. Quando un momento presente (Stern, 2004) assume una forte valenza affettiva, diviene rilevante nel processo terapeutico, ed è definito “momento ora”. Quando viene “riconosciuto” e accolto da entrambi i partner, durante la relazione terapeutica, porterebbe ad una reciproca sintonia, a un vero momento di incontro e di intesa emotiva. I “momenti di incontro” costituiscono l’evento focale che agisce all’interno di una “relazione implicita condivisa” e che sono in grado di cambiarla, modificando la conoscenza implicita, sia intrapsichica sia interpersonale. Questa “conoscenza relazionale implicita” segna un cambiamento in uno stato diadico, ricollegabile all’emergere dei “momenti di incontro” tra i due soggetti in interazione. Gran parte dell’ambiente intersoggettivo deriva dalla conoscenza relazionale implicita, che si ricostruisce nel corso della terapia: il processo di cambiamento avviene durante la riattualizzazione della relazione implicita condivisa durante i “momenti di incontro”, aprendo in questo modo nuove e feconde prospettive al cambiamento terapeutico. Il cambiamento terapeutico avviene: 1) in piccoli momenti meno carichi emotivamente ma molto pregnanti, come i “momenti ora” e “momenti di incontro”; 2) si verifica nel flusso attuale delle mosse relazionali di ciascun partner a livello locale; 3) nella conoscenza relazionale implicita riproponendo modi più coerenti di stare insieme; 4) attraverso un processo di riconoscimento della specificità dell’adattamento delle iniziative dei due partner. Il Boston Change Process Study Group ha proposto pertanto di cambiare la cornice concettuale secondo cui il cambiamento terapeutico dipende dalla qualità delle interpretazioni dell’analista: lavorando da una prospettiva diadica, si lavora in una concezione della qualità interna della mente, in un modello relazionale che enfatizza le caratteristiche del processo tra due persone. Da questo punto di vista, la “qualità della relazione” è data dalla ricerca di direzionalità e adattamento, e dai tentativi di ampliare la gamma di esperienze emozionali che possono essere portate nella relazione terapeutica. Nella misura in cui questi processi diadici vengono compresi, può emergere nella relazione terapeutica un sentimento di fiducia. Questi processi dinamici una volta attivati si muovono in direzione di una crescente integrazione, coerenza e scioltezza nella capacità del paziente di regolare il suo equilibrio all’interno di scambi significativi con gli altri. Il paradigma di cambiamento del Boston Change Process Study Group valorizza le singole sequenze del processo terapeutico come un percorso emozionale su cui si inscrivono momenti relazionali rilevanti che ne modificano il contesto intersoggettivo. Un “momento ora” che venga colto dal punto di vista terapeutico e compreso da entrambi i soggetti della relazione è un “momento di incontro”. Così avviene nella relazione genitore-bambino: il “momento di incontro” è molto specifico; nella sua costruzione ciascun partner ha apportato attivamente un contributo unico e autentico di se stesso come persona, non in termini di teoria o di tecnica. Quando il terapeuta (soprattutto), ma anche il paziente, sono alle prese con il momento ora, e il paziente lo esplora e lo vive, questo può diventare un “momento di incontro”. La creazione di un “momento di incontro” è frutto di alcuni elementi essenziali: il terapeuta deve usare un aspetto specifico della propria individualità, che contiene una connotazione personale. I due soggetti si incontrano in quel momento come persone relativamente svelate, non nascoste dietro ai loro rispettivi e ordinari ruoli della terapia. Inoltre, le azioni che costituiscono il “momento di incontro” non sono di solito consuete, abituali, o tantomeno tecniche: devono essere nuove e forgiate per soddisfare la particolarità del momento. Ciò implica naturalmente una certa dose di empatia, un’apertura a una nuova valutazione affettiva e cognitiva, il segnale di una sintonizzazione affettiva, un punto di vista che rispecchia e ratifica che ciò che sta avvenendo appartiene al campo della “relazione implicita condivisa”, cioè a uno stato diadico primitivo, che inconsuetamente diventa attuale, specifico dei partecipanti. Il “momento di incontro” è l’evento nodale di questo processo, poiché è il punto in cui viene modificato il contesto intersoggettivo, cambiando così la conoscenza relazionale implicita della precedente relazione paziente-terapeuta. Anche altri autori hanno riconosciuto che il “momento” svolge un ruolo trasformativo fondamentale: il concetto è stato sviluppato da Lachmann e Beebe (1996) con particolare riferimento al neonato. Si può affermare che tutta la progressiva evoluzione della psicoanalisi infantile è stata il fattore del progresso dell’intera psicoanalisi rispetto al modello freudiano originale. I “momenti ora” possono anche portare direttamente a un’interpretazione e, a sua volta, l’interpretazione può portare a “momenti di incontro” o viceversa. Un’interpretazione può così permettere al paziente di vedere se stesso, la sua vita e il suo passato in maniera diversa. Questa presa di coscienza è sempre accompagnata dalla pregnanza di affetti. Se l’interpretazione viene presentata in modo da trasmettere la partecipazione affettiva dell’analista, potrebbe in tal caso verificarsi un “momento di incontro”. Sander (1992) vede questa eventualità come la combinazione delle specificità di due sistemi che sono in risonanza e sintonizzati l’uno all’altro. Questo fenomeno è analogo alla sintonizzazione affettiva osservata nelle interazioni genitore-bambino (Stern, 1985). Se l’analista fa un’ottima interpretazione al momento giusto questa potrà produrre un effetto sul paziente, magari un silenzio, oppure un “Ah” o, più spesso, qualche cosa del tipo: “Sì, è proprio così”. Se l’analista non trasmette la propria partecipazione affettiva (anche con una risposta semplicissima come: “Sì, per lei lo è stato”, detta però con una connotazione personale che proviene da un diverso proprio vissuto), il paziente ha la sensazione che l’analista abbia semplicemente applicato la tecnica. Questo impedirebbe a una nuova esperienza di modificare l’ambiente intersoggettivo noto e, di conseguenza, le interpretazioni diventano molto meno efficaci. Un’interpretazione può occludere un momento ora se lo “spiega” ulteriormente, elaborandolo o generalizzandolo: ne fa perdere la sostanza emozionale. Se il terapeuta non ha in mente altro che la mera interpretazione, se non fa (spesso un fare, più che un dire) qualche cosa che chiarisca la sua reazione e faccia capire che riconosce che il paziente ha avvertito un cambiamento nella relazione, allora non si creerà alcun nuovo contesto intersoggettivo. La variazione dell’ambiente intersoggettivo crea invece un nuovo equilibrio, determinando una riorganizzazione dei processi difensivi. Diventa così possibile la creatività individuale: la “conoscenza relazionale implicita” del paziente viene liberata dai vincoli imposti da ciò che è abituale (Winnicott, 1957). L’Infant Research ha esemplificato l’esame della relazione implicita condivisa, mettendo in evidenza che la comunicazione affettiva e l’intersoggettività sono presenti praticamente fin dall’inizio della vita postnatale (Tronick, 1989; Lachmann, Beebe, 1996). Si ritiene che bambino e caregiver siano entrambi in grado di esprimere affetti e di comprendere le espressioni affettive dell’altro. Questo primitivo sistema di comunicazione continua, silenzioso, a funzionare nel corso di tutta la vita, all’insegna del “non verbale”. Il “momento di incontro”, con il suo caratteristico impegno verso “ciò che sta succedendo qui e ora tra noi”, potrebbe anche non essere mai esplicitato verbalmente, ma ugualmente i “momenti di incontro” vanno a costituire gli eventi nodali che agiscono all’interno della “relazione implicita condivisa”, su di essa, e sono in grado di cambiarla, modificando i vissuti che costituiscono una conoscenza implicita, sia la propria, intrapsichica, che quella interpersonale. La conoscenza relazionale implicita può essere rappresentata come una “forma ancora-da-conoscere”, che continua a operare in maniera implicita per tutta la vita molto prima di disporre della capacità di usare il linguaggio: la conoscenza relazionale implicita opera fuori del focus dell’attenzione e dell’esperienza conscia, senza servirsi della traduzione nel linguaggio; il linguaggio potrebbe anche essere usato al servizio di questo sapere, ma le conoscenze implicite che governano le interazioni intime non sono basate sul linguaggio e non sono traducibili normalmente in forma semantica esplicita. Il riconoscimento di tale sistema di rappresentazione basato sul non simbolico è stato un contributo centrale dell’Infant Research (per esempio, Ainsworth, Blehar, Waters, Wall, 1978; Beebe, Lachmann, 1994; Tronick, 1989). Un “momento di incontro” è l’evento transazionale che riorganizza la conoscenza relazionale implicita del paziente, riorganizzando il campo intersoggettivo tra paziente e terapeuta, ciò a cui Tronick e collaboratori (1998) si riferiscono come a uno “stato diadico di coscienza”. Un momento di incontro si verifica quando il duplice obiettivo delle azioni complementari adatte e del riconoscimento intersoggettivo vengono improvvisamente realizzati. I momenti di incontro vengono costruiti congiuntamente, e richiedono che ognuno dei partner contribuisca fornendo qualcosa di unico. Sander (1995b) ha osservato che la caratteristica essenziale di questi momenti è il fatto che avvenga uno specifico e ben poco consapevole riconoscimento della realtà soggettiva dell’altro. Ciascun partner coglie e ratifica una versione simile di “ciò che sta accadendo ora tra noi”: i momenti di incontro catalizzano il cambiamento nell’interazione bambino-genitore così come anche in qualunque psicoterapia. Nel processo di sviluppo infantile, la conoscenza relazionale implicita comprende la ricorrente mappatura dei movimenti regolatori reciproci tra bambino e caregiver (Tronick, 1989). Questi movimenti regolatori passano a negoziare una serie di sfide emergenti nel corso dei primi anni di vita, come descritto da teorici quali Sander (1962) e Stern (1985). Nel corso di questa continua regolazione reciprocamente costruita, il campo interattivo tra bambino e caregiver diventa più complesso e ben articolato, facendo emergere la possibilità di nuove forme di interazione. Per esempio, una volta che le attese ripetute delle mosse di ciascun partner in un gioco infantile sono stabilite, il palcoscenico è pronto perché entrambi i partner possano “giocare” con quella forma violando le attese stabilite. Questo reciproco senso della possibilità emergente di nuove forme di interazione che si ha tra i due partecipanti, crea un intensificarsi dell’affetto. Beebe e Lachmann (1994) hanno richiamato l’attenzione sull’importanza dei “picchi d’affetto” come uno dei tre principi di salienza nei primi periodi dello sviluppo e nel trattamento psicoanalitico. La regolazione reciproca nella situazione terapeutica descritta da Lachmann e Beebe (1996) è tuttavia diversa dall’idea di “momenti affettivi intensi” proposta da questi due autori: il cambiamento di uno stato diadico è collocato nell’emergere del “momento di incontro” tra i due soggetti in interazione. Queste nuove possibilità interattive creerebbero una regolazione intersoggettiva più complessa e coerente, integrando le nuove capacità evolutive del neonato o raggiungendo un adattamento maggiormente pieno e soddisfacente alle sue attuali capacità e potenzialità affettive. La transizione a un sistema di regolazione reciproca più completa e dunque coerente ruota attorno a un momento di incontro tra genitore e bambino. Questi momenti di riconoscimento intersoggettivo mutato segnano un cambiamento nella gamma di regolazione raggiungibile tra i due partner: essi segnalano un’apertura all’elaborazione di nuove iniziative. Nuove forme di esperienza condivisa possono ora essere elaborate attorno a forme precedentemente non riconosciute. La conoscenza relazionale implicita dei due partner ne verrà di necessità alterata. La nuova potenzialità non soltanto viene messa in atto, ma anche rappresentata come una possibilità futura. Tronick e collaboratori (1998) approfondiscono questo tema della regolazione più completa e coerente collegata a un momento intersoggettivo di incontro degli stati di coscienza diadicamente ampliati. Se consideriamo il concetto freudiano di rimozione, la conoscenza relazionale implicita ci dà un chiaro esempio di come qualcosa di profondamente inconscio possa assumere l’aspetto cosciente di una emozione, o meglio di un avvertimento emotivo, il che significa un processo che appare subito del tutto diverso dagli esempi che la teoria classica descrive. Questa, ritenendo che è l’interpretazione che agisce sul cambiamento, presume che si possa tradurre l’inconscio in pensiero verbale, cioè a un livello di coscienza del tutto più evoluto e non comparabile con quanto oggi sappiamo consistere tutta quella memoria implicita che costituisce l’inconscio: tale presunzione, scontata a priori all’epoca di Freud, appare oggi molto discutibile rispetto al fatto che così si possa verificare il cambiamento dell’assetto emozionale del paziente, il qual cambiamento, peraltro, se viene avvertito, lo è a livello di una coscienza di tipo affettivo, si manifesta efficace nel cambiamento terapeutico. Risulta pertanto assai arduo pensare a un processo quale quello concettualizzato da Freud con una “rimozione” di qualcosa consistente in una verbalizzazione di pensiero. Non si rimuove nessun ostacolo, né tanto meno un “pensiero”: si cambia semplicemente e più nascostamente un assetto di emozioni. È cambiata pertanto la concezione dell’inconscio. Non più considerato in un rapporto dicotomico con “la” coscienza tantomeno concepito secondario a un presunto primato di tale Coscienza e quindi ad essa riconducibile. La coscienza stessa viene ridimensionata, come processo in continuum e mutevole, che talora in varie forme può comparire in un qualche stato della mente; la quale è nella sua essenza inconsapevole (Imbasciati, 2014). Ciò è in accordo con quanto oggi ci dicono le neuroscienze. La mente inizia nel feto, prosegue nel suo sviluppo, per esperienza, nel neonato e nel bimbo e solo dopo il secondo anno di vita si organizza una qualche forma di coscienza. Ma il bambino conosce il mondo molto prima, attraverso le relazioni coi caregiver, e prima ancora conosce la madre: si struttura in lui la conoscenza relazionale implicita, e da questa la sua conoscenza (implicita, cioè senza coscienza) del mondo. Bollas (1996) ha parlato del “conosciuto non pensato”. In ambito strettamente psicoanalitico, il progresso delle concettualizzazioni, cioè teorie che descrivono il funzionamento della mente, può essere condensato intorno e susseguentemente ai due articoli di Stern e BCPSG (1998,2005): più recentemente Foresti (2013) propone che il “something more” debba essere cambiato con un “something about”. Più oltre si è sostenuto (Imbasciati, 2015, cap. 6.8) che si possa affermare un “something than”: il fattore mutativo della psicoanalisi è qualcosa di diverso dall’interpretazione, che qualche volta (si spera) “cavalchi” le parole. I lavori psicoanalitici, tra i quali solo a pochi abbiamo dato qui rilievo, prospettano in termini psicologici di variazione e interazioni di affetti quanto oggi ci confermano le neuroscienze, soprattutto a riguardo del gradiente di arousal emozionale che a livello biochimico cambia le reti neurali. Dobbiamo pertanto riconoscere come la clinica psicoanalitica abbia anticipato di molti lustri quello che oggi viene confermato circa il cambiamento terapeutico, inquadrandolo nei più generali processi di scambio emozionale reciproco che costituiscono lo sviluppo del mentecervello degli umani. Un tale riconoscimento, supportato dalla ricerca ormai da molti anni, non è stato tuttavia ancora assimilato nella cultura media degli psicoterapeuti psicoanalisti. Malgrado le suddette scoperte descritte dalla ricerca clinica psicoanalitica datino ormai da molti anni, la cultura media degli psicoterapeuti è ancora attestata sulle vecchie posizioni della psicoanalisi classica. Questo è in parte dovuto all’Organizzazione che opera nelle Istituzioni psicoanalitiche, ostacolando le innovazioni per mantenere una venerata tradizione (Imbasciati, 2016), ma trova terreno fertile e resistente nel coscienzialismo radicato nella cultura occidentale: credere che si possa curare con le parole (l’interpretazione), anziché con l’emanazione di più impalpabili emozioni, significa infatti appoggiarsi alla coscienza, che alle parole è legata e che è stata rinforzata da una tecnica per lungo tempo purtroppo prescritta.
2017
9788865314395
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