Greenberg e Mitchell, nel loro libro del 1983 che è diventato un classico “I rapporti oggettuali nella teoria psicoanalitica”, fanno una distinzione fondamentale tra le teorie basate sulle pulsioni e quelle basate sulla relazione. Secondo quelle del primo gruppo, rappresentate essenzialmente dalla psicoanalisi freudiana, i rapporti sono un mezzo per la soddisfazione istintuale, e la relazione affettiva è un derivato secondario. Secondo quelle del secondo gruppo, il rapporto intersoggettivo è un’esigenza primaria. Al secondo gruppo appartengono autori di diversa provenienza, per cui si possono definire diverse posizioni relazionali. Il capostipite dell’orientamento psicoanalitico relazionale è senz’altro da considerarsi Sándor Ferenczi (1909, 1932). Tutti i suoi scritti, ma in particolare quelli successivi al ‘20, contengono pressoché tutto ciò che poi sarà sviluppato anni dopo negli ambiti interpersonalisti, intersoggettivisti, relazionalisti. La teoria pulsionale di Freud, la preminenza del soddisfacimento pulsionale ed il concetto di “narcisismo primario” sono stati profondamente modificati dalla successiva ricerca psicoanalitica; il contributo della psicologia dell’io, formulata da Hartmann, è inerente l’affermazione che determinate funzioni dell’io si sviluppano in maniera autonoma rispetto al soddisfacimento pulsionale, ed è evidente che tali formulazioni si sono sviluppate in conseguenza di inadeguatezze implicite nella teoria pulsionale freudiana della quale possono essere considerate tentativi di correzione. La psicologia dell’io propone una alternativa all’ipotesi freudiana che il pensiero si sviluppi, poiché il tentativo di “allucinazione del seno” fallisce, implicitamente affermando che qualora l’allucinare il seno riuscisse, il pensiero e l’io non potrebbero svilupparsi; inoltre le formulazioni di Hartmann si pongono come tentativo di correzione delle incompatibilità esistenti tra la specifica teoria freudiana e la realtà dei processi maturativi e come tentativo quindi di conciliazione tra la teoria psicoanalitica e la realtà biologica e fisiologica che la teoria pulsionale freudiana contraddiceva. Il più indipendente dalla matrice freudiana è stato l’americano Harry Stack Sullivan, che ha dato inizio alla scuola interpersonale. A lui si sono uniti inizialmente Karen Horney e Erich Fromm. È questo il gruppo al quale si è dato tradizionalmente il nome di “neofreudiano”. La Horney si è poi staccata dagli altri due per fondare una propria scuola, mentre Sullivan e Fromm hanno fondato il William Alanson White Institute a New York. Negli ultimi anni la scuola interpersonale ha dato luogo alla scuola relazionale, rappresentata essenzialmente da Greenberg e Mitchell, i direttori delle due riviste più importanti del settore, rispettivamente “Contemporary Psychoanalysis” e “Psychoanalytic Dialogues”. Il termine “relazione oggettuale” compare raramente in Freud, e certamente il relativo concetto non appartiene alla sua metapsicologia. A partire dagli anni ‘30 tuttavia tale concetto ha assunto una sempre maggiore importanza; per Balint, ad esempio, tutti i termini della psicoanalisi, ad eccezione appunto dei termini “oggetto” e “relazione oggettuale”, si riferiscono all’individuo da solo (per usare l’espressione introdotta da Rickman ad una “one-body psychology”). Balint (1937) affermava che esistono precocemente relazioni oggettuali, ad esempio nel lattante e quindi un “amore oggettuale primario”, ma sarebbero viste da parte del bimbo verso la madre e non in una reciproca relazione, come successivamente invece si considerò. D’altra parte questa concezione sarebbe ben poco conciliabile con la nozione freudiana di narcisismo primario. Separatezza e rapporto intersoggettivo sono i risultati comuni dell’attuale ricerca psicoanalitica incentrata sull’osservazione del neonato. Analogamente, Spitz ha notato come Freud abbia affrontato il problema dell’oggetto libidico dal solo punto di vista del soggetto. In Gran Bretagna si è formata, partendo da Melania Klein, la scuola che è stata denominata come “teoria delle relazioni oggettuali”. Questa definisce l’Io in rapporto con altri oggetti, interni ed esterni, ipotizzando che la mente del bambino si trasformi inizialmente a partire dalle esperienze precoci con il caregiver. I termini di “relazione oggettuale” e di “fantasia” sembrerebbero indicare una strutturazione teorica sensibilmente diversa rispetto a quella freudiana, anche se la Klein si riferisce alla dualità delle pulsioni di vita e di morte, ritenute operanti sin dalle primissime fasi della vita ed esprimentesi sull’oggetto “seno”: il primo oggetto del bambino verrebbe ad essere scisso in seno buono (quello che nutre) e seno cattivo (quello che si ritira o si rifiuta). In altri termini la Klein opera una distinzione tra gli oggetti esterni, quali un osservatore adulto può identificare e ciò che questi oggetti vengono a rappresentare internamente al soggetto, in questo caso il neonato. Le conoscenze attuali direbbero che il neonato non può ancora percepire gli oggetti esterni così come “sono”, percepiti cioè da un adulto: la Klein assume, come Freud e tutti della sua epoca, che la percezione sia naturale e già avvenuta nel neonato. Per questo cercò di spiegare altrimenti ciò che intuiva nel neonato. Affermò allora che le pulsioni, quella di morte in particolare, scinderebbero l’immagine, realistica ella presume, che il neonato “dovrebbe” avere, in due “oggetti interni”, il Seno cattivo, scisso dall’aggressività pulsionale rispetto a quel Seno buono che ella presumeva essere rappresentato nella mente del bimbo. In altri termini la Klein, aderendo ad un ingenuo modello coscienzialista di ciò appare ad un adulto percipiente (e che questi assume come ovvio e naturale insito nella fisiologia di una non meglio specificata sensorialità), non poteva altrimenti spiegare la sua intuizione clinica: che il neonato non percepiva il seno quale esso è nella realtà. Oggi ne diamo spiegazione diversa avendo conosciuto la psicofisiologia per la quale gradualmente un bambino raggiunge la capacità percettiva che ha un adulto, ma ai tempi questo non era noto: con gli assunti a priori di allora circa la percezione, l’intuizione clinica kleiniana di un mondo interiore rappresentazionale del neonato diverso da quello che si rappresenta un adulto, doveva altrimenti essere spiegato: la Kein la spiegò con il modello pulsionale freudiano (Imbasciati 1978, 1998, 2013, 2015). La spiegazione kleiniana, consona alle conoscenze del tempo quali inquadrate nella Teoria freudiana, fu unanimemente accettata dagli psicoanalisti per decenni, anche se la clinica psicoanalitica progrediva, articolando più sofisticate spiegazioni cliniche per aderire alla teoria. La Klein concettualizzò una “posizione” schizoparanoide e una depressiva, nel bambino, sulla base di meccanismi di scissione e proiezione, la prima, e di riparazione reintroiezione la seconda. Nella prima situazione si scinderebbe l’immagine (creduta ovvia e naturale anche nel bimbo) del seno, e attraverso meccanismi di proiezione si creerebbe una immagine “cattiva” in cui si convoglierebbero (proietterebbero) rabbie, frustrazioni e aggressività vissute dal neonato. Nella posizione depressiva subentrerebbe una “angoscia” di colpa per aver “attaccato in fantasia” l’oggetto, cosicché l’angoscia spingerebbe a “riparare”: questo si concentrerebbe nella formazione interiore di un “oggetto totale”, che oggi definiremmo in termini di una rappresentazione adeguata, correlata a una raggiunta capacità percettiva, ma che a quel tempo fu concettualizzata come “oggetto interno” concepito come affettivo (ecco l’affetto concepito in termini di pulsioni e cioè come tutt’altra cosa rispetto a percezione e cognizione) e pertanto affermando che non era identificabile con nessuna rappresentazione; essendo questa considerata “cognitiva” cioè d’altra natura. Merito della Klein, e della scuola che ne derivò, fu però l’aver individuato l’importanza di un mondo interiore e la potenza dei sentimenti, angosciosi soprattutto, del bambino, nelle sue fantasie, specificandone lo stato inconscio; scrisse per questo “phantasy” col PH anziché l’usuale inglese “fantasy”; nonché l’aver collegato un interiore sentimento spiacevole, sia all’espellerlo persecutoriamente (angoscia persecutoria della posizione schizoparanoide), sia un più integrato successivo contenimento come amore-riparazione, cioè come lo precisarono le sue allieve Susan Isaac (1952) e Joan Riviere (964). Altro merito della Klein è stato quello di dimostrare come i sentimenti inconsci, di amore e odio, con le loro “metabolizzazioni” (Imbasciati, 1993) schizoparanoidi piuttosto che depressive, avvengano anche nell’analisi degli adulti (identificazione proiettiva). Anche entro l’inconscio di una persona avvengono simili processi, nell’origine e sviluppo del pensiero: questi ultimi concetti sono stati sviluppati da Bion, che ne trasse un modello teorico sull’origine del pensiero, colmando lo iato originario pseudo-kleiniano di una divisione tra affetto e cognizione (Imbasciati 1991). Ma il maggiore e più generale merito delle scuole che si sono sviluppate a partire dalla clinica keiniana concernono il fondamentale spostamento di tutta la psicoanalisi da una concezione di indagine asettica e pertanto intellettualistica, che svelerebbe ciò che “sotto” i disagi di una persona traducendolo nelle parole dell’interpretazione, a quella che mette in campo, come evento fondamentale, la relazione: tra analista e analizzando, come oggi con più evidenza sappiamo accadere tra le persone che abbiano un rapporto intimo. È questa relazione, la cui qualità oggi si ritiene fondamentale perché si possa aver un effetto terapeutico con il trattamento psicoanalitico. Paradigmatico per questa scoperta fu lo sviluppo della clinica dei bambini. Già questo era stato affermato, sia pur in modo meno articolato ma forse più realistico, da Ronald Fairbairn (1952) mettendo il concetto di pulsioni in un alone semantico meno biologizzato e soprattutto meno reificabile, già negli anni ‘50 affermava che “la libido” (il termine è freudiano, ma trasfigurato) non cerca il piacere, cioè il bambino non è mosso (negli anni ‘80 Lichtenberg dirà “motivazione”, cioè muovere) dalla ricerca di soddisfazione ma di un “oggetto” inteso come un genitore: il genitore reale dice Fairbairn, Bowlby dirà che cerca protezione per la sopravvivenza, oggi diciamo psichica. La scuola iniziata dalla Klein ebbe grande successo e sviluppo, forse anche grazie alle vivaci polemiche interne della Società Psicoanalitica Britannica (1941-42) e si articolò nella produzione di vari autori, quali Meltzer e soprattutto Bion, mentre Winnicott, evitando proposizioni teoriche, fece sentire il suo effetto molti anni dopo, e mentre intanto dall’Argentina si sviluppava la “Teoria del Campo” dei coniugi Baranger. Sempre più con tali A.A. si definì una “Teoria delle relazioni oggettuali” o meglio al plurale “ Teorie Relazionali”, da affiancare (per cortesia?3)alla “Teoria pulsionale classica”. In realtà lo sviluppo del principio generale della Relazione come fattore di cura e al contempo di indagine contrasta la teoria freudiana: quest’ultima pertanto dovrebbe risultare messa in sordina.Al di sotto delle varie articolazioni teoriche può essere ravvisata la costante difficoltà di differenziare cosa si intenda per “oggetto”: oggetto reale? Oggetto delle pulsioni? La soddisfazione sessuale? Un’altra persona, reale? Genitori? Oggetto sessuale? Oggetto d’amore? Una qualche rappresentazione interiore? Gioca qui un equivoco: assumendo a priori e al contempo tacendo (inconscio) che gli affetti siano cosa diversa dalle rappresentazioni, intese cognitivamente, come se fossero corrispondenti a ciò che percepisce un adulto, si sostenne a lungo l’idea di un “oggetto interno”, assai poco definibile rispetto alla rappresentazione. E a lungo si giocò sui vari termini tedeschi diversi che Freud volta a volta aveva usato (darstellung, vorstellung, representanz). Al di sotto del problema c’è stata a lungo la difficoltà di decidere se consideriamo il termine “oggetto” un costrutto astratto, e pertanto riferito a una teoria, oppure un oggetto della realtà esterna che ci circonda: ma in quest’ultimo caso, si pone il problema di come questo sia vissuto dal soggetto. Se è nella sua mente, deve esservi in qualche modo rappresentato. Ma gli affetti sono rappresentabili? E se non lo sono, cosa sono? Se la mente è espressione di un cervello, dove ivi essi sono? Come? Che tipo di corrispettivo vi hanno, se non vogliamo dire rappresentazione? Cosa è dunque questo “oggetto interno”? E cosa “la” rappresentazione? La chiave del problema è l’assunto inconsapevole che la percezione sia evento naturale automatico uguale per tutti gli umani e corrispondente ad una immagine di qualcosa esistente nella realtà: questa sarebbe la rappresentazione. Ma non si tiene conto che la percezione è una capacità del cervello acquisita, il cui risultato è progressivamente diverso, e diverso in ogni persona. Una uguaglianza è solo operativa, ma nessuno potrà mai sapere se io vedo una penna sulla mia scrivania in modo totalmente identico a come la vede un altro. Lo studio dei bambini piccoli, dico me percepiscono, e per contro la psicofisiologia della percezione, oggi ci illumina. Le neuroscienze ci dicono che nel cervello ci sono solo miriadi di reti neurali che, qualche volta e mutevolmente, fanno affiorare alle capacità di un certo soggetto in un certo momento quello che in maniera del tutto genuina possiamo chiamare oggetto. Questo gli analisti lo stanno imparando oggi. Così la teoria delle relazioni oggettuali, nata allo scopo di affermare l’autonomia delle relazioni d’oggetto rispetto alle pulsioni, si è spinta oggi sino al rifiuto pressoché totale della teoria pulsionale stessa (Imbasciati,2015,2017). Se la psicologia dell’io tendeva a mantenere intatta la validità della teoria delle pulsioni, la teoria delle relazioni oggettuali sostituiva il primato pulsionale con la tendenza alla ricerca dell’oggetto. A seguito delle suddette difficoltà conoscitive, teoriche, istituzionali, si formarono tre scuole psicoanalitiche nella Società Britannica: una, più vicina all’eredità freudiana, mantenne con grande aderenza la tradizione teorica del Maestro, un’altra Kleiniana, e una terza intermedia (middle group) detta indipendentista; ogni Scuola preparò differenziatamente i rispettivi futuri analisti e questo prolungò per decenni differenze e contraddizioni; oggi peraltro più sfumate. La scuola degli indipendenti, con Winnicott, si fondò sul principio fondamentale sostenuto appunto da Winnicott (1951), che le cure materne rappresentano una componente essenziale senza la quale non potrebbe esistere alcun bambino. Si prendono così radicalmente le distanze rispetto al concetto di narcisismo primario di Freud. Esiste un evento fondamentale: creare “relazioni oggettuali” in un sufficiente grado di intimità. L’aspetto relazionale è fondamentale: Winnicott ritenne che nel neonato già potesse esistere una vita psichica, affermando contemporaneamente però che il neonato non esiste se non in relazione ad una madre che se ne prende cura. Il funzionamento psichico si struttura su quello che egli chiama sé, istanza psichica preliminare alla costituzione dell’io: con il termine Sé Winnicott indica il senso di continuità garantito dalle capacità di adattamento della madre verso il bambino. Questa consente al neonato l’illusione che il seno sia parte di lui: “…la madre pone il seno laddove il bambino è pronto a crearlo, e nel momento giusto”. (1964). L’illusione permette al bambino di esprimere una creatività primaria personale, e la madre favorirà poi, progressivamente, una graduale disillusione consentendo l’individuazione del bambino. Lo stato definitivo come “preoccupazione materna primaria” è quello in cui la madre sviluppa una sorprendente capacità di identificarsi con il bambino, fatto che le permette di prendersene adeguatamente cura. Prendersi cura assume per Winnicott il significato di abbracciare, contenere, ed il contenimento delle braccia materne sostituisce in qualche modo il contenimento della parete uterina. Il contenimento ha la funzione di “lo ausiliario” che consente lo sviluppo adeguato del rudimentale “lo del bambino”. I concetti di illusione-sostegno nella rela zione materna conducono alla relazione oggettuale, modificazione legata al passaggio dalla fusione alla separazione. I concetti winnicottiani, evitando esplicitazioni teoriche generali sul funzionamento della mente ed evidenziando, invece, nella clinica con i bambini eventi che dimostrano come la Relazione sia il processo fondamentale che dà origine alla mente, si sono prestati a che numerosi autori, tra i quali anche Greenberg e Mitchell, potessero descrivere l’evoluzione della psicoanalisi in modo meno controverso, e cioè sottolineandone il continuo progresso della clinica e con questa mostrando una continuità tra i successivi modi di intendere termini in evoluzione, come oggetto, pulsione, relazione, legame, origine del Sé, della mente, ed altro; in un’opera di unificazione delle varie correnti divergenti: la clinica unisce, al di là delle diverse teorie.In questo quadro di sviluppo, fondamentale è stata l’opera di Bion, soprattutto con il concetto di “rêverie materna”, accostato all’intuizione di una continuità tra sogno e stato di veglia, tra sensazioni, emozioni, immagini, fantasie e “pensiero”, originalmente riassunti nello schema teorico illustrato dalla sua “griglia” (1963). C’è una continuità, che si evidenzia nella relazione analitica, tra analista e analizzando, analizzabile soprattutto nella mente dell’analista e da qui passibile di essere trasmesso all’analizzando, tra eventi dichiarati non mentali, alle sensazioni, alle emozioni, alle immagini oniriche, ai “concetti” fin al pensiero più sofisticato, come quello matematico. Questa “teoria”, oltre che utile per qualunque clinica psicoanalitica, dà una spiegazione dello sviluppo della mente e del suo funzionamento e sembra oggi accordarsi con quanto dicono le neuroscienze. A Bion si sono riferiti altri autori che specificatamente si sono occupati dei neonati e dei bambini, quali Trevarthen, Embde, Brazelton, Meltzoff, Thronik, ed altri. Parallelamente geniali e insospettate sono giunte le osservazioni di Bowlby. Bowlby ha applicato alla psicoanalisi la moderna biologia evoluzionistica, con una solida base biologica, anche se buona parte degli psicoanalisti tardivamente se ne è resa conto. Bowlby afferma che l’attaccamento del bambino alla madre è un comportamento innato, selezionato nel corso dell’evoluzione a causa del suo valore di sopravvivenza (in primo luogo, la difesa dai predatori). Bowlby ha posto, potenzialmente, la psicoanalisi su solide basi biologiche. Per quanto riguarda la cultura, Erich Fromm ha messo in evidenza, attraverso il concetto di “filtri sociali”, i condizionamenti inconsci che esercita la società, e ha svolto una critica serrata della società moderna. La “Teoria dell’Attaccamento” sviluppata dalla Scuola di Bowlby ha conferito un ulteriore progresso alla clinica psicoanalitica e vi ha aperto la possibilità di utili interpretazioni con la psicologia sperimentale dell’età evolutiva. Complessivamente le idee espresse dai teorici delle “relazioni oggettuali” hanno rappresentato un notevole progresso rispetto alle iniziali concettualizzazioni di Freud. Se le formulazioni espresse dalla psicologia dell’io potevano essere con facilità integrate nella teoria pulsionale freudiana, considerate un completamento di questa, la teoria delle relazioni oggettuali può invece essere ritenuta un cambiamento di paradigma della teoria psicoanalitica. Nel senso che il primato etiologico dello sviluppo umano spetta non alle vicissitudini del soddisfacimento pulsionale ma alla qualità affettiva delle originarie relazioni oggettuali. È cioè la qualità della relazione ad avere significatività primaria. Va ricordato al proposito Stern, col suo BCSG (1998, 2010) e il suo fondamentale e da molti contestato stacco dalla prassi terapeutica degli analisti, quale espresso dal titolo del suo famoso articolo sul “Something more than interpretation”, con cui sottolinea come i fattori “mutativi” sul paziente in terapia non siano aspecifici come erano stati definiti rispetto alle specificità dell’interpretazione, ma siano fondamentali. Si è così messa in crisi la Talking Cure (Imbasciati, 2010) fino a sostenere “Something than Interpretation”. Ciò che cambia nel percorso psicoanalitico è la qualità della Relazione; così come sembra in ciò che cambia tra tutti gli umani.

Cena Loredana- Teoria delle pulsioni e Teoria delle Relazioni d'Oggetto

Cena Loredana
2017-01-01

Abstract

Greenberg e Mitchell, nel loro libro del 1983 che è diventato un classico “I rapporti oggettuali nella teoria psicoanalitica”, fanno una distinzione fondamentale tra le teorie basate sulle pulsioni e quelle basate sulla relazione. Secondo quelle del primo gruppo, rappresentate essenzialmente dalla psicoanalisi freudiana, i rapporti sono un mezzo per la soddisfazione istintuale, e la relazione affettiva è un derivato secondario. Secondo quelle del secondo gruppo, il rapporto intersoggettivo è un’esigenza primaria. Al secondo gruppo appartengono autori di diversa provenienza, per cui si possono definire diverse posizioni relazionali. Il capostipite dell’orientamento psicoanalitico relazionale è senz’altro da considerarsi Sándor Ferenczi (1909, 1932). Tutti i suoi scritti, ma in particolare quelli successivi al ‘20, contengono pressoché tutto ciò che poi sarà sviluppato anni dopo negli ambiti interpersonalisti, intersoggettivisti, relazionalisti. La teoria pulsionale di Freud, la preminenza del soddisfacimento pulsionale ed il concetto di “narcisismo primario” sono stati profondamente modificati dalla successiva ricerca psicoanalitica; il contributo della psicologia dell’io, formulata da Hartmann, è inerente l’affermazione che determinate funzioni dell’io si sviluppano in maniera autonoma rispetto al soddisfacimento pulsionale, ed è evidente che tali formulazioni si sono sviluppate in conseguenza di inadeguatezze implicite nella teoria pulsionale freudiana della quale possono essere considerate tentativi di correzione. La psicologia dell’io propone una alternativa all’ipotesi freudiana che il pensiero si sviluppi, poiché il tentativo di “allucinazione del seno” fallisce, implicitamente affermando che qualora l’allucinare il seno riuscisse, il pensiero e l’io non potrebbero svilupparsi; inoltre le formulazioni di Hartmann si pongono come tentativo di correzione delle incompatibilità esistenti tra la specifica teoria freudiana e la realtà dei processi maturativi e come tentativo quindi di conciliazione tra la teoria psicoanalitica e la realtà biologica e fisiologica che la teoria pulsionale freudiana contraddiceva. Il più indipendente dalla matrice freudiana è stato l’americano Harry Stack Sullivan, che ha dato inizio alla scuola interpersonale. A lui si sono uniti inizialmente Karen Horney e Erich Fromm. È questo il gruppo al quale si è dato tradizionalmente il nome di “neofreudiano”. La Horney si è poi staccata dagli altri due per fondare una propria scuola, mentre Sullivan e Fromm hanno fondato il William Alanson White Institute a New York. Negli ultimi anni la scuola interpersonale ha dato luogo alla scuola relazionale, rappresentata essenzialmente da Greenberg e Mitchell, i direttori delle due riviste più importanti del settore, rispettivamente “Contemporary Psychoanalysis” e “Psychoanalytic Dialogues”. Il termine “relazione oggettuale” compare raramente in Freud, e certamente il relativo concetto non appartiene alla sua metapsicologia. A partire dagli anni ‘30 tuttavia tale concetto ha assunto una sempre maggiore importanza; per Balint, ad esempio, tutti i termini della psicoanalisi, ad eccezione appunto dei termini “oggetto” e “relazione oggettuale”, si riferiscono all’individuo da solo (per usare l’espressione introdotta da Rickman ad una “one-body psychology”). Balint (1937) affermava che esistono precocemente relazioni oggettuali, ad esempio nel lattante e quindi un “amore oggettuale primario”, ma sarebbero viste da parte del bimbo verso la madre e non in una reciproca relazione, come successivamente invece si considerò. D’altra parte questa concezione sarebbe ben poco conciliabile con la nozione freudiana di narcisismo primario. Separatezza e rapporto intersoggettivo sono i risultati comuni dell’attuale ricerca psicoanalitica incentrata sull’osservazione del neonato. Analogamente, Spitz ha notato come Freud abbia affrontato il problema dell’oggetto libidico dal solo punto di vista del soggetto. In Gran Bretagna si è formata, partendo da Melania Klein, la scuola che è stata denominata come “teoria delle relazioni oggettuali”. Questa definisce l’Io in rapporto con altri oggetti, interni ed esterni, ipotizzando che la mente del bambino si trasformi inizialmente a partire dalle esperienze precoci con il caregiver. I termini di “relazione oggettuale” e di “fantasia” sembrerebbero indicare una strutturazione teorica sensibilmente diversa rispetto a quella freudiana, anche se la Klein si riferisce alla dualità delle pulsioni di vita e di morte, ritenute operanti sin dalle primissime fasi della vita ed esprimentesi sull’oggetto “seno”: il primo oggetto del bambino verrebbe ad essere scisso in seno buono (quello che nutre) e seno cattivo (quello che si ritira o si rifiuta). In altri termini la Klein opera una distinzione tra gli oggetti esterni, quali un osservatore adulto può identificare e ciò che questi oggetti vengono a rappresentare internamente al soggetto, in questo caso il neonato. Le conoscenze attuali direbbero che il neonato non può ancora percepire gli oggetti esterni così come “sono”, percepiti cioè da un adulto: la Klein assume, come Freud e tutti della sua epoca, che la percezione sia naturale e già avvenuta nel neonato. Per questo cercò di spiegare altrimenti ciò che intuiva nel neonato. Affermò allora che le pulsioni, quella di morte in particolare, scinderebbero l’immagine, realistica ella presume, che il neonato “dovrebbe” avere, in due “oggetti interni”, il Seno cattivo, scisso dall’aggressività pulsionale rispetto a quel Seno buono che ella presumeva essere rappresentato nella mente del bimbo. In altri termini la Klein, aderendo ad un ingenuo modello coscienzialista di ciò appare ad un adulto percipiente (e che questi assume come ovvio e naturale insito nella fisiologia di una non meglio specificata sensorialità), non poteva altrimenti spiegare la sua intuizione clinica: che il neonato non percepiva il seno quale esso è nella realtà. Oggi ne diamo spiegazione diversa avendo conosciuto la psicofisiologia per la quale gradualmente un bambino raggiunge la capacità percettiva che ha un adulto, ma ai tempi questo non era noto: con gli assunti a priori di allora circa la percezione, l’intuizione clinica kleiniana di un mondo interiore rappresentazionale del neonato diverso da quello che si rappresenta un adulto, doveva altrimenti essere spiegato: la Kein la spiegò con il modello pulsionale freudiano (Imbasciati 1978, 1998, 2013, 2015). La spiegazione kleiniana, consona alle conoscenze del tempo quali inquadrate nella Teoria freudiana, fu unanimemente accettata dagli psicoanalisti per decenni, anche se la clinica psicoanalitica progrediva, articolando più sofisticate spiegazioni cliniche per aderire alla teoria. La Klein concettualizzò una “posizione” schizoparanoide e una depressiva, nel bambino, sulla base di meccanismi di scissione e proiezione, la prima, e di riparazione reintroiezione la seconda. Nella prima situazione si scinderebbe l’immagine (creduta ovvia e naturale anche nel bimbo) del seno, e attraverso meccanismi di proiezione si creerebbe una immagine “cattiva” in cui si convoglierebbero (proietterebbero) rabbie, frustrazioni e aggressività vissute dal neonato. Nella posizione depressiva subentrerebbe una “angoscia” di colpa per aver “attaccato in fantasia” l’oggetto, cosicché l’angoscia spingerebbe a “riparare”: questo si concentrerebbe nella formazione interiore di un “oggetto totale”, che oggi definiremmo in termini di una rappresentazione adeguata, correlata a una raggiunta capacità percettiva, ma che a quel tempo fu concettualizzata come “oggetto interno” concepito come affettivo (ecco l’affetto concepito in termini di pulsioni e cioè come tutt’altra cosa rispetto a percezione e cognizione) e pertanto affermando che non era identificabile con nessuna rappresentazione; essendo questa considerata “cognitiva” cioè d’altra natura. Merito della Klein, e della scuola che ne derivò, fu però l’aver individuato l’importanza di un mondo interiore e la potenza dei sentimenti, angosciosi soprattutto, del bambino, nelle sue fantasie, specificandone lo stato inconscio; scrisse per questo “phantasy” col PH anziché l’usuale inglese “fantasy”; nonché l’aver collegato un interiore sentimento spiacevole, sia all’espellerlo persecutoriamente (angoscia persecutoria della posizione schizoparanoide), sia un più integrato successivo contenimento come amore-riparazione, cioè come lo precisarono le sue allieve Susan Isaac (1952) e Joan Riviere (964). Altro merito della Klein è stato quello di dimostrare come i sentimenti inconsci, di amore e odio, con le loro “metabolizzazioni” (Imbasciati, 1993) schizoparanoidi piuttosto che depressive, avvengano anche nell’analisi degli adulti (identificazione proiettiva). Anche entro l’inconscio di una persona avvengono simili processi, nell’origine e sviluppo del pensiero: questi ultimi concetti sono stati sviluppati da Bion, che ne trasse un modello teorico sull’origine del pensiero, colmando lo iato originario pseudo-kleiniano di una divisione tra affetto e cognizione (Imbasciati 1991). Ma il maggiore e più generale merito delle scuole che si sono sviluppate a partire dalla clinica keiniana concernono il fondamentale spostamento di tutta la psicoanalisi da una concezione di indagine asettica e pertanto intellettualistica, che svelerebbe ciò che “sotto” i disagi di una persona traducendolo nelle parole dell’interpretazione, a quella che mette in campo, come evento fondamentale, la relazione: tra analista e analizzando, come oggi con più evidenza sappiamo accadere tra le persone che abbiano un rapporto intimo. È questa relazione, la cui qualità oggi si ritiene fondamentale perché si possa aver un effetto terapeutico con il trattamento psicoanalitico. Paradigmatico per questa scoperta fu lo sviluppo della clinica dei bambini. Già questo era stato affermato, sia pur in modo meno articolato ma forse più realistico, da Ronald Fairbairn (1952) mettendo il concetto di pulsioni in un alone semantico meno biologizzato e soprattutto meno reificabile, già negli anni ‘50 affermava che “la libido” (il termine è freudiano, ma trasfigurato) non cerca il piacere, cioè il bambino non è mosso (negli anni ‘80 Lichtenberg dirà “motivazione”, cioè muovere) dalla ricerca di soddisfazione ma di un “oggetto” inteso come un genitore: il genitore reale dice Fairbairn, Bowlby dirà che cerca protezione per la sopravvivenza, oggi diciamo psichica. La scuola iniziata dalla Klein ebbe grande successo e sviluppo, forse anche grazie alle vivaci polemiche interne della Società Psicoanalitica Britannica (1941-42) e si articolò nella produzione di vari autori, quali Meltzer e soprattutto Bion, mentre Winnicott, evitando proposizioni teoriche, fece sentire il suo effetto molti anni dopo, e mentre intanto dall’Argentina si sviluppava la “Teoria del Campo” dei coniugi Baranger. Sempre più con tali A.A. si definì una “Teoria delle relazioni oggettuali” o meglio al plurale “ Teorie Relazionali”, da affiancare (per cortesia?3)alla “Teoria pulsionale classica”. In realtà lo sviluppo del principio generale della Relazione come fattore di cura e al contempo di indagine contrasta la teoria freudiana: quest’ultima pertanto dovrebbe risultare messa in sordina.Al di sotto delle varie articolazioni teoriche può essere ravvisata la costante difficoltà di differenziare cosa si intenda per “oggetto”: oggetto reale? Oggetto delle pulsioni? La soddisfazione sessuale? Un’altra persona, reale? Genitori? Oggetto sessuale? Oggetto d’amore? Una qualche rappresentazione interiore? Gioca qui un equivoco: assumendo a priori e al contempo tacendo (inconscio) che gli affetti siano cosa diversa dalle rappresentazioni, intese cognitivamente, come se fossero corrispondenti a ciò che percepisce un adulto, si sostenne a lungo l’idea di un “oggetto interno”, assai poco definibile rispetto alla rappresentazione. E a lungo si giocò sui vari termini tedeschi diversi che Freud volta a volta aveva usato (darstellung, vorstellung, representanz). Al di sotto del problema c’è stata a lungo la difficoltà di decidere se consideriamo il termine “oggetto” un costrutto astratto, e pertanto riferito a una teoria, oppure un oggetto della realtà esterna che ci circonda: ma in quest’ultimo caso, si pone il problema di come questo sia vissuto dal soggetto. Se è nella sua mente, deve esservi in qualche modo rappresentato. Ma gli affetti sono rappresentabili? E se non lo sono, cosa sono? Se la mente è espressione di un cervello, dove ivi essi sono? Come? Che tipo di corrispettivo vi hanno, se non vogliamo dire rappresentazione? Cosa è dunque questo “oggetto interno”? E cosa “la” rappresentazione? La chiave del problema è l’assunto inconsapevole che la percezione sia evento naturale automatico uguale per tutti gli umani e corrispondente ad una immagine di qualcosa esistente nella realtà: questa sarebbe la rappresentazione. Ma non si tiene conto che la percezione è una capacità del cervello acquisita, il cui risultato è progressivamente diverso, e diverso in ogni persona. Una uguaglianza è solo operativa, ma nessuno potrà mai sapere se io vedo una penna sulla mia scrivania in modo totalmente identico a come la vede un altro. Lo studio dei bambini piccoli, dico me percepiscono, e per contro la psicofisiologia della percezione, oggi ci illumina. Le neuroscienze ci dicono che nel cervello ci sono solo miriadi di reti neurali che, qualche volta e mutevolmente, fanno affiorare alle capacità di un certo soggetto in un certo momento quello che in maniera del tutto genuina possiamo chiamare oggetto. Questo gli analisti lo stanno imparando oggi. Così la teoria delle relazioni oggettuali, nata allo scopo di affermare l’autonomia delle relazioni d’oggetto rispetto alle pulsioni, si è spinta oggi sino al rifiuto pressoché totale della teoria pulsionale stessa (Imbasciati,2015,2017). Se la psicologia dell’io tendeva a mantenere intatta la validità della teoria delle pulsioni, la teoria delle relazioni oggettuali sostituiva il primato pulsionale con la tendenza alla ricerca dell’oggetto. A seguito delle suddette difficoltà conoscitive, teoriche, istituzionali, si formarono tre scuole psicoanalitiche nella Società Britannica: una, più vicina all’eredità freudiana, mantenne con grande aderenza la tradizione teorica del Maestro, un’altra Kleiniana, e una terza intermedia (middle group) detta indipendentista; ogni Scuola preparò differenziatamente i rispettivi futuri analisti e questo prolungò per decenni differenze e contraddizioni; oggi peraltro più sfumate. La scuola degli indipendenti, con Winnicott, si fondò sul principio fondamentale sostenuto appunto da Winnicott (1951), che le cure materne rappresentano una componente essenziale senza la quale non potrebbe esistere alcun bambino. Si prendono così radicalmente le distanze rispetto al concetto di narcisismo primario di Freud. Esiste un evento fondamentale: creare “relazioni oggettuali” in un sufficiente grado di intimità. L’aspetto relazionale è fondamentale: Winnicott ritenne che nel neonato già potesse esistere una vita psichica, affermando contemporaneamente però che il neonato non esiste se non in relazione ad una madre che se ne prende cura. Il funzionamento psichico si struttura su quello che egli chiama sé, istanza psichica preliminare alla costituzione dell’io: con il termine Sé Winnicott indica il senso di continuità garantito dalle capacità di adattamento della madre verso il bambino. Questa consente al neonato l’illusione che il seno sia parte di lui: “…la madre pone il seno laddove il bambino è pronto a crearlo, e nel momento giusto”. (1964). L’illusione permette al bambino di esprimere una creatività primaria personale, e la madre favorirà poi, progressivamente, una graduale disillusione consentendo l’individuazione del bambino. Lo stato definitivo come “preoccupazione materna primaria” è quello in cui la madre sviluppa una sorprendente capacità di identificarsi con il bambino, fatto che le permette di prendersene adeguatamente cura. Prendersi cura assume per Winnicott il significato di abbracciare, contenere, ed il contenimento delle braccia materne sostituisce in qualche modo il contenimento della parete uterina. Il contenimento ha la funzione di “lo ausiliario” che consente lo sviluppo adeguato del rudimentale “lo del bambino”. I concetti di illusione-sostegno nella rela zione materna conducono alla relazione oggettuale, modificazione legata al passaggio dalla fusione alla separazione. I concetti winnicottiani, evitando esplicitazioni teoriche generali sul funzionamento della mente ed evidenziando, invece, nella clinica con i bambini eventi che dimostrano come la Relazione sia il processo fondamentale che dà origine alla mente, si sono prestati a che numerosi autori, tra i quali anche Greenberg e Mitchell, potessero descrivere l’evoluzione della psicoanalisi in modo meno controverso, e cioè sottolineandone il continuo progresso della clinica e con questa mostrando una continuità tra i successivi modi di intendere termini in evoluzione, come oggetto, pulsione, relazione, legame, origine del Sé, della mente, ed altro; in un’opera di unificazione delle varie correnti divergenti: la clinica unisce, al di là delle diverse teorie.In questo quadro di sviluppo, fondamentale è stata l’opera di Bion, soprattutto con il concetto di “rêverie materna”, accostato all’intuizione di una continuità tra sogno e stato di veglia, tra sensazioni, emozioni, immagini, fantasie e “pensiero”, originalmente riassunti nello schema teorico illustrato dalla sua “griglia” (1963). C’è una continuità, che si evidenzia nella relazione analitica, tra analista e analizzando, analizzabile soprattutto nella mente dell’analista e da qui passibile di essere trasmesso all’analizzando, tra eventi dichiarati non mentali, alle sensazioni, alle emozioni, alle immagini oniriche, ai “concetti” fin al pensiero più sofisticato, come quello matematico. Questa “teoria”, oltre che utile per qualunque clinica psicoanalitica, dà una spiegazione dello sviluppo della mente e del suo funzionamento e sembra oggi accordarsi con quanto dicono le neuroscienze. A Bion si sono riferiti altri autori che specificatamente si sono occupati dei neonati e dei bambini, quali Trevarthen, Embde, Brazelton, Meltzoff, Thronik, ed altri. Parallelamente geniali e insospettate sono giunte le osservazioni di Bowlby. Bowlby ha applicato alla psicoanalisi la moderna biologia evoluzionistica, con una solida base biologica, anche se buona parte degli psicoanalisti tardivamente se ne è resa conto. Bowlby afferma che l’attaccamento del bambino alla madre è un comportamento innato, selezionato nel corso dell’evoluzione a causa del suo valore di sopravvivenza (in primo luogo, la difesa dai predatori). Bowlby ha posto, potenzialmente, la psicoanalisi su solide basi biologiche. Per quanto riguarda la cultura, Erich Fromm ha messo in evidenza, attraverso il concetto di “filtri sociali”, i condizionamenti inconsci che esercita la società, e ha svolto una critica serrata della società moderna. La “Teoria dell’Attaccamento” sviluppata dalla Scuola di Bowlby ha conferito un ulteriore progresso alla clinica psicoanalitica e vi ha aperto la possibilità di utili interpretazioni con la psicologia sperimentale dell’età evolutiva. Complessivamente le idee espresse dai teorici delle “relazioni oggettuali” hanno rappresentato un notevole progresso rispetto alle iniziali concettualizzazioni di Freud. Se le formulazioni espresse dalla psicologia dell’io potevano essere con facilità integrate nella teoria pulsionale freudiana, considerate un completamento di questa, la teoria delle relazioni oggettuali può invece essere ritenuta un cambiamento di paradigma della teoria psicoanalitica. Nel senso che il primato etiologico dello sviluppo umano spetta non alle vicissitudini del soddisfacimento pulsionale ma alla qualità affettiva delle originarie relazioni oggettuali. È cioè la qualità della relazione ad avere significatività primaria. Va ricordato al proposito Stern, col suo BCSG (1998, 2010) e il suo fondamentale e da molti contestato stacco dalla prassi terapeutica degli analisti, quale espresso dal titolo del suo famoso articolo sul “Something more than interpretation”, con cui sottolinea come i fattori “mutativi” sul paziente in terapia non siano aspecifici come erano stati definiti rispetto alle specificità dell’interpretazione, ma siano fondamentali. Si è così messa in crisi la Talking Cure (Imbasciati, 2010) fino a sostenere “Something than Interpretation”. Ciò che cambia nel percorso psicoanalitico è la qualità della Relazione; così come sembra in ciò che cambia tra tutti gli umani.
2017
9788865314395
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