Il desiderio di generare, viene spesso fatto risalire all’istinto: negli animali infatti il comportamento riproduttivo è regolato dai ritmi fisiologici dell’estro e dalla possibilità ciclica di generare nella femmina. La riproduzione procede sulla base di una regolazione istintuale uguale in tutti gli individui della stessa specie. È questo che definisce l’istinto, ma il comportamento istintivo che regna nel mondo animale, della femmina che ricerca l’accoppiamento quando è in una situazione di estro, e dell’incoercibilità del comportamento coitale del maschio quando percepisce una femmina in estro, sono scomparsi per il genere umano. L’idea di un istinto dietro le vicissitudini dello sviluppo individuale umano è implicita nella prima psicoanalisi, in cui il punto di vista biologico rappresentava un principio fondamentale e lo studio della riproduzione dava modo di estenderlo. Si è così supposto un substrato biologico, istintuale, come giustificazione fisiologica dell’evento psichico costituito dalla motivazione riproduttiva che anima il genere umano. Nello sviluppo della teoria psicoanalitica la questione dell’istinto è stata oggetto di una lunga controversia. Freud faceva riferimento all’“istinto che vuol generare…” (Freud, 1915) senza peraltro fosse precisata la definizione dell’istinto (Imbasciati, 2005, 2007, 2010, 2011). Note sono oggi le critiche e le contestazioni a tale modalità di intendere l’istinto, così come note sono le critiche alla generale concezione biologistica di Freud (Imbasciati, 2005, 2007, 2010, 2011). Man mano che la psicoanalisi si è evoluta, dalle concezioni endogenetiste, e quindi istintiviste, a teorizzazioni relazionali, si è affermata sempre più la nozione che quanto prima era ritenuto spinta endogena, ancorabile quindi al biologico nell’antico concetto di istinto, era invece dovuto a uno sviluppo psichico interpersonale, ovvero ad apprendimenti relazionali precocissimi, costituenti memoria implicita, che, come tale, muove l’essere umano senza che egli ne possa avere coscienza alcuna (Imbasciati, 2008).La letteratura psicoanalitica evidenzia che la presenza o meno del desiderio di generare sia legato a fasi cruciali dello sviluppo psicosessuale nelle quali si realizzano processi mentali profondi relativi all’acquisizione della identità femminile. Un nodo cruciale del discorso è rappresentato dal difficile percorso dell’identità in relazione ai primi rapporti oggettuali e al formarsi dell’immagine del sé corporeo. Secondo la Ferraro e la Nunziante Cesaro (1985) l’identità femminile sarebbe marcata dal potenziale “spazio cavo” del corpo della donna, che può essere saturato nell’esperienza del generare: sarebbe inscritto nella costituzione biologica un “bisogno primario” di procreazione. Le vicissitudini fantasmatiche che accompagnano i vissuti della corporeità femminile animerebbero i processi generativi (la gravidanza) e il desiderio di maternità. A metà tra le concezioni istintuali endogeniste e quelle che spiegano su base sociale il desiderio di generare, stanno gli apporti derivati dagli studi di Harlow (1958). Nelle scimmie si dimostrò che il cosiddetto istinto sessuale e le capacità di procreare e accudire i piccoli sono frutto di apprendimenti precocissimi, del piccolo scimmiottino nel rapporto con la propria madre e gli altri adulti: in particolare si tratta di apprendimenti tattili – propriocettivi – che costituiscono una memoria implicita sulla quale si struttura poi il comportamento sessuale e quello materno. Anche nell’uomo è dimostrabile come quanto ascritto all’istinto, sessuale e materno, debba farsi risalire a memorie implicite della primissima infanzia: sono questi apprendimenti “affettivi” che strutturano il rapporto di coppia e con esso le attitudini generative. Nel senso comune pertanto il concetto di istinto viene usato in modo scorretto: si ritiene che un comportamento spontaneo sia istintivo. Il concetto di istinto è applicabile solo per gli animali inferiori: nei mammiferi subentrano gli apprendimenti. Nell’uomo non si può parlare di istinto, ciò che sembra istintivo è in realtà appreso in epoche precoci. Note sono ad oggi le critiche e le contestazioni a tale modalità di intendere l’istinto, rimaste tuttavia retaggio di un certo senso comune, così come note sono le critiche alla generale concezione biologistica di Freud. Lungo questa evoluzione della psicoanalisi gli studi che focalizzavano invece lo sviluppo nel sociale si sono venuti a trovare non più in contrapposizione, ma in complementarietà. Apprendimenti e memoria implicita vengono così a trovarsi correlati col sociale, e non solo in riferimento alle prime fasi della vita, ma a tutto il suo successivo scorrere. In tale prospettiva le aspettative sociali esercitano la loro pressione su predisposizioni psichiche acquisite.Il desiderio di procreazione (Cena, 1989) sarebbe presente nella donna con una duplice manifestazione: come “desiderio di gravidanza” (Pines, 1982) e “desiderio di maternità” (Baruffi, 1979) che rimandano ai due processi della generatività e della genitorialità. Secondo la Pines (1982) occorre fare una distinzione tra i termini, anche se sembrerebbero la manifestazione di un unico desiderio, perché i vissuti che li alimentano dipendono da esperienze alquanto diverse: nel desiderio di maternità prevalgono infatti vicissitudini interiori collegate al “prendersi cura di”, quindi alle funzioni di caregiver, mentre nel desiderio di gravidanza prevalgono vicissitudini che rimandano al periodo adolescenziale, in cui il poter diventare gravida diventa per la donna unicamente una garanzia rispetto alle proprie capacità procreative ed è una rassicurazione dalle angosce e dai dubbi sulla propria identità sessuale. Desiderio di gravidanza e maternità non sempre coincidono: ci sono molte ragioni intrapsichiche che sottendono una gravidanza, che non hanno nulla a che fare con il desiderio di occuparsi e di accudire un bambino reale. Nel desiderio di un figlio può prevalere il desiderio narcisistico che il proprio corpo funzioni come quello della propria madre o prevalere la disponibilità ad occuparsi e prendersi cura di un bambino (Pines, 1972). Con l’arrivo della mestruazione l’apparato riproduttivo della adolescente è predisposto fare un figlio, ma non sempre questa maturazione coincide anche con il raggiungimento di una adeguata maturazione affettiva che consenta anche la funzione di caregiver. La mestruazione indica la piena realizzazione della propria corporeità di donna, simile a quella della madre, in grado di generare e contenere al proprio interno bambini (Imbasciati, 1990): i vissuti relativi al proprio corpo fertile sono pertanto influenzati dalle modalità della relazione con la propria madre e con quella che è la rappresentazione della propria femminilità. I mutamenti che comporta l’adolescenza, indicativi della avvenuta maturità sessuale, possono comportare esperienze emotive diverse in relazione alla capacità di crescere e di differenziarsi dalla propria madre. Anche la relazione con il padre e quella tra padre e madre hanno una loro influenza: i vissuti nei confronti della coppia genitoriale sono determinanti per le scelte della ragazza nei confronti della generatività e della genitorialità. Si possono individuare molteplici aspetti nella complessità del “desiderio di maternità” per la donna: l’idea di maternità comincia molto prima del concepimento, nell’immaginario e nella storia dei rapporti interpersonali; la maternità è correlata all’identità femminile, ai vissuti della donna con le proprie figure genitoriali, in particolare con la madre (Bydlowski, 1989). In letteratura viene evidenziato questo aspetto di rielaborazione del proprio passato, in particolare dei vissuti realistici e fantasmatici con la propria madre (Breen, 1992; Pines, 1972). La genitorialità è un processo evolutivo (Benedek, 1959) che accompagna l’esistenza dell’individuo: le tendenze psicodinamiche che motivano questo processo hanno origine in particolare nella relazione che la bimba ha sperimentato con la propria madre, ma anche con le figure di caregiver a cui la bambina è stata esposta e il desiderio di essere perfetti e onnipotenti (Brazelton, Cramer, 1991). La presenza di un figlio nel mondo inconscio di una donna costituisce quella che la Bydloswski definisce come “l’esperienza interiore della maternità” (Bydlowski, 2004): la maternità e il desiderio di generare e di genitorialità costituiscono, consciamente e inconsciamente, un lungo e complesso cammino psicologico nella formazione della struttura psichica della donna, saldamente ancorato alle aspettative sul proprio futuro di donna adulta e sulle dinamiche psicologiche che sottendono la “qualità” dei processi di identificazione con la propria madre. Una donna che ammira la propria madre potrà volere dei figli per diventare una madre come quella che ha avuto lei: immagina di sperimentare la stessa realizzazione che sua madre ha trovato nella maternità e desidera riprodurre, con i propri figli, il rapporto che ha avuto lei con la madre. Se invece ritiene che la propria madre sia stata carente e infelice, può temere, diventando madre a sua volta di mostrarsi altrettanto carente e di sperimentare la maternità, essenzialmente come un peso e un sacrificio. Ha paura di riprodurre la stessa insoddisfacente vita familiare che ha sperimentato da piccola e di ristabilire con il figlio lo stesso rapporto indesiderabile avuto da lei con la madre, rendendolo altrettanto infelice. Oppure una donna che non ammira la propria madre può considerare l’allevamento dei figli come un mezzo per dimostrare che lei, invece, è capace di essere una buona madre. È decisa a creare una vita familiare diversa da quella che ha sperimentato come figlia, stabilendo con i propri bambini un rapporto diverso da quello avuto con sua madre (Baruffi, 1979). Solo un legame positivo ed una identificazione positiva con la madre può consentire alla donna di generare e di diventare una buona madre, portatrice di un rapporto originario con il proprio figlio, attivando così il processo della genitorialità. È l’esperienza di essere amato dai propri genitori che fa emergere la capacità di amare nel bambino, di entrambi i sessi, mettendolo in grado di ricambiare l’affetto e più tardi di trasferirlo anche negli altri. L’essere amato lo rende capace di amare; il non aver avuto questa esperienza arresterà le sue capacità. In questa direzione si muove il pensiero di Winnicott (Winnicott, 1956, 1958, 1986, 1987). La gravidanza e il “desiderio di gravidanza” (Bydlowski, 1989) offre alla donna l’opportunità di essere piena, perfetta, di sperimentare il corpo come potente, produttivo: di vivere il desiderio di fusione e di unità con un altro, il desiderio di essere in un’unità con il bambino che riprende il desiderio di tornare all’unità con la propria madre; il desiderio di rispecchiarsi nel bambino, come l’espressione di una dimensione narcisistica, in cui il bambino rappresenta una promessa di continuazione di una lunga catena che unisce alla propria famiglia di origine e di cui assumerà alcune caratteristiche; ed infine la realizzazione di ideali e di occasioni perdute. Il bambino desiderato contiene in sé l’io ideale del genitore e il desiderio di rinnovare vecchie relazioni: il figlio comporta la possibilità di rinnovamento, di transfert di legami perduti, l’occasione di sostituire la propria madre e contemporaneamente di separarsi da lei; si sperimenta così una doppia identificazione, con la propria madre e con il proprio feto. Ancora, una donna può aspettarsi di trovare le sue caratteristiche riflesse e perpetuate nel figlio, oppure considerare la procreazione un modo di compensare le carenze che avverte in se stessa, allevando un figlio il quale realizzi ciò che ella non è stata capace di realizzare, o diventi quello che lei vorrebbe essere. Una donna può sentirsi infatti sicura della sua femminilità e guardare alla procreazione come un’ulteriore conferma della propria identità femminile; oppure può dubitare e aver bisogno della gravidanza come dimostrazione della propria adeguatezza di donna e del fatto che è adulta, o può chiedersi se il fare figli sia necessario alla sua identità; oppure può desiderare la maternità come identità sostitutiva per aspirazioni di carriera non realizzate, oppure giudicarla un impedimento rispetto alla sua identità di persona che vuole raggiungere certe mete professionali ce una donna ha scarsa stima di sé, può essere riluttante a fare figli, nel timore che il figlio cresca simile a lei, con i suoi difetti. A seconda di come si valuta una donna può desiderare o meno la continuità biologica come una sorta d’immortalità: molteplici e ambivalenti possono essere dunque le diverse facce del “desiderio di gravidanza e di maternità”.

Cena Loredana-Processi psichici e filiazione

CENA, Loredana
Writing – Review & Editing
2015-01-01

Abstract

Il desiderio di generare, viene spesso fatto risalire all’istinto: negli animali infatti il comportamento riproduttivo è regolato dai ritmi fisiologici dell’estro e dalla possibilità ciclica di generare nella femmina. La riproduzione procede sulla base di una regolazione istintuale uguale in tutti gli individui della stessa specie. È questo che definisce l’istinto, ma il comportamento istintivo che regna nel mondo animale, della femmina che ricerca l’accoppiamento quando è in una situazione di estro, e dell’incoercibilità del comportamento coitale del maschio quando percepisce una femmina in estro, sono scomparsi per il genere umano. L’idea di un istinto dietro le vicissitudini dello sviluppo individuale umano è implicita nella prima psicoanalisi, in cui il punto di vista biologico rappresentava un principio fondamentale e lo studio della riproduzione dava modo di estenderlo. Si è così supposto un substrato biologico, istintuale, come giustificazione fisiologica dell’evento psichico costituito dalla motivazione riproduttiva che anima il genere umano. Nello sviluppo della teoria psicoanalitica la questione dell’istinto è stata oggetto di una lunga controversia. Freud faceva riferimento all’“istinto che vuol generare…” (Freud, 1915) senza peraltro fosse precisata la definizione dell’istinto (Imbasciati, 2005, 2007, 2010, 2011). Note sono oggi le critiche e le contestazioni a tale modalità di intendere l’istinto, così come note sono le critiche alla generale concezione biologistica di Freud (Imbasciati, 2005, 2007, 2010, 2011). Man mano che la psicoanalisi si è evoluta, dalle concezioni endogenetiste, e quindi istintiviste, a teorizzazioni relazionali, si è affermata sempre più la nozione che quanto prima era ritenuto spinta endogena, ancorabile quindi al biologico nell’antico concetto di istinto, era invece dovuto a uno sviluppo psichico interpersonale, ovvero ad apprendimenti relazionali precocissimi, costituenti memoria implicita, che, come tale, muove l’essere umano senza che egli ne possa avere coscienza alcuna (Imbasciati, 2008).La letteratura psicoanalitica evidenzia che la presenza o meno del desiderio di generare sia legato a fasi cruciali dello sviluppo psicosessuale nelle quali si realizzano processi mentali profondi relativi all’acquisizione della identità femminile. Un nodo cruciale del discorso è rappresentato dal difficile percorso dell’identità in relazione ai primi rapporti oggettuali e al formarsi dell’immagine del sé corporeo. Secondo la Ferraro e la Nunziante Cesaro (1985) l’identità femminile sarebbe marcata dal potenziale “spazio cavo” del corpo della donna, che può essere saturato nell’esperienza del generare: sarebbe inscritto nella costituzione biologica un “bisogno primario” di procreazione. Le vicissitudini fantasmatiche che accompagnano i vissuti della corporeità femminile animerebbero i processi generativi (la gravidanza) e il desiderio di maternità. A metà tra le concezioni istintuali endogeniste e quelle che spiegano su base sociale il desiderio di generare, stanno gli apporti derivati dagli studi di Harlow (1958). Nelle scimmie si dimostrò che il cosiddetto istinto sessuale e le capacità di procreare e accudire i piccoli sono frutto di apprendimenti precocissimi, del piccolo scimmiottino nel rapporto con la propria madre e gli altri adulti: in particolare si tratta di apprendimenti tattili – propriocettivi – che costituiscono una memoria implicita sulla quale si struttura poi il comportamento sessuale e quello materno. Anche nell’uomo è dimostrabile come quanto ascritto all’istinto, sessuale e materno, debba farsi risalire a memorie implicite della primissima infanzia: sono questi apprendimenti “affettivi” che strutturano il rapporto di coppia e con esso le attitudini generative. Nel senso comune pertanto il concetto di istinto viene usato in modo scorretto: si ritiene che un comportamento spontaneo sia istintivo. Il concetto di istinto è applicabile solo per gli animali inferiori: nei mammiferi subentrano gli apprendimenti. Nell’uomo non si può parlare di istinto, ciò che sembra istintivo è in realtà appreso in epoche precoci. Note sono ad oggi le critiche e le contestazioni a tale modalità di intendere l’istinto, rimaste tuttavia retaggio di un certo senso comune, così come note sono le critiche alla generale concezione biologistica di Freud. Lungo questa evoluzione della psicoanalisi gli studi che focalizzavano invece lo sviluppo nel sociale si sono venuti a trovare non più in contrapposizione, ma in complementarietà. Apprendimenti e memoria implicita vengono così a trovarsi correlati col sociale, e non solo in riferimento alle prime fasi della vita, ma a tutto il suo successivo scorrere. In tale prospettiva le aspettative sociali esercitano la loro pressione su predisposizioni psichiche acquisite.Il desiderio di procreazione (Cena, 1989) sarebbe presente nella donna con una duplice manifestazione: come “desiderio di gravidanza” (Pines, 1982) e “desiderio di maternità” (Baruffi, 1979) che rimandano ai due processi della generatività e della genitorialità. Secondo la Pines (1982) occorre fare una distinzione tra i termini, anche se sembrerebbero la manifestazione di un unico desiderio, perché i vissuti che li alimentano dipendono da esperienze alquanto diverse: nel desiderio di maternità prevalgono infatti vicissitudini interiori collegate al “prendersi cura di”, quindi alle funzioni di caregiver, mentre nel desiderio di gravidanza prevalgono vicissitudini che rimandano al periodo adolescenziale, in cui il poter diventare gravida diventa per la donna unicamente una garanzia rispetto alle proprie capacità procreative ed è una rassicurazione dalle angosce e dai dubbi sulla propria identità sessuale. Desiderio di gravidanza e maternità non sempre coincidono: ci sono molte ragioni intrapsichiche che sottendono una gravidanza, che non hanno nulla a che fare con il desiderio di occuparsi e di accudire un bambino reale. Nel desiderio di un figlio può prevalere il desiderio narcisistico che il proprio corpo funzioni come quello della propria madre o prevalere la disponibilità ad occuparsi e prendersi cura di un bambino (Pines, 1972). Con l’arrivo della mestruazione l’apparato riproduttivo della adolescente è predisposto fare un figlio, ma non sempre questa maturazione coincide anche con il raggiungimento di una adeguata maturazione affettiva che consenta anche la funzione di caregiver. La mestruazione indica la piena realizzazione della propria corporeità di donna, simile a quella della madre, in grado di generare e contenere al proprio interno bambini (Imbasciati, 1990): i vissuti relativi al proprio corpo fertile sono pertanto influenzati dalle modalità della relazione con la propria madre e con quella che è la rappresentazione della propria femminilità. I mutamenti che comporta l’adolescenza, indicativi della avvenuta maturità sessuale, possono comportare esperienze emotive diverse in relazione alla capacità di crescere e di differenziarsi dalla propria madre. Anche la relazione con il padre e quella tra padre e madre hanno una loro influenza: i vissuti nei confronti della coppia genitoriale sono determinanti per le scelte della ragazza nei confronti della generatività e della genitorialità. Si possono individuare molteplici aspetti nella complessità del “desiderio di maternità” per la donna: l’idea di maternità comincia molto prima del concepimento, nell’immaginario e nella storia dei rapporti interpersonali; la maternità è correlata all’identità femminile, ai vissuti della donna con le proprie figure genitoriali, in particolare con la madre (Bydlowski, 1989). In letteratura viene evidenziato questo aspetto di rielaborazione del proprio passato, in particolare dei vissuti realistici e fantasmatici con la propria madre (Breen, 1992; Pines, 1972). La genitorialità è un processo evolutivo (Benedek, 1959) che accompagna l’esistenza dell’individuo: le tendenze psicodinamiche che motivano questo processo hanno origine in particolare nella relazione che la bimba ha sperimentato con la propria madre, ma anche con le figure di caregiver a cui la bambina è stata esposta e il desiderio di essere perfetti e onnipotenti (Brazelton, Cramer, 1991). La presenza di un figlio nel mondo inconscio di una donna costituisce quella che la Bydloswski definisce come “l’esperienza interiore della maternità” (Bydlowski, 2004): la maternità e il desiderio di generare e di genitorialità costituiscono, consciamente e inconsciamente, un lungo e complesso cammino psicologico nella formazione della struttura psichica della donna, saldamente ancorato alle aspettative sul proprio futuro di donna adulta e sulle dinamiche psicologiche che sottendono la “qualità” dei processi di identificazione con la propria madre. Una donna che ammira la propria madre potrà volere dei figli per diventare una madre come quella che ha avuto lei: immagina di sperimentare la stessa realizzazione che sua madre ha trovato nella maternità e desidera riprodurre, con i propri figli, il rapporto che ha avuto lei con la madre. Se invece ritiene che la propria madre sia stata carente e infelice, può temere, diventando madre a sua volta di mostrarsi altrettanto carente e di sperimentare la maternità, essenzialmente come un peso e un sacrificio. Ha paura di riprodurre la stessa insoddisfacente vita familiare che ha sperimentato da piccola e di ristabilire con il figlio lo stesso rapporto indesiderabile avuto da lei con la madre, rendendolo altrettanto infelice. Oppure una donna che non ammira la propria madre può considerare l’allevamento dei figli come un mezzo per dimostrare che lei, invece, è capace di essere una buona madre. È decisa a creare una vita familiare diversa da quella che ha sperimentato come figlia, stabilendo con i propri bambini un rapporto diverso da quello avuto con sua madre (Baruffi, 1979). Solo un legame positivo ed una identificazione positiva con la madre può consentire alla donna di generare e di diventare una buona madre, portatrice di un rapporto originario con il proprio figlio, attivando così il processo della genitorialità. È l’esperienza di essere amato dai propri genitori che fa emergere la capacità di amare nel bambino, di entrambi i sessi, mettendolo in grado di ricambiare l’affetto e più tardi di trasferirlo anche negli altri. L’essere amato lo rende capace di amare; il non aver avuto questa esperienza arresterà le sue capacità. In questa direzione si muove il pensiero di Winnicott (Winnicott, 1956, 1958, 1986, 1987). La gravidanza e il “desiderio di gravidanza” (Bydlowski, 1989) offre alla donna l’opportunità di essere piena, perfetta, di sperimentare il corpo come potente, produttivo: di vivere il desiderio di fusione e di unità con un altro, il desiderio di essere in un’unità con il bambino che riprende il desiderio di tornare all’unità con la propria madre; il desiderio di rispecchiarsi nel bambino, come l’espressione di una dimensione narcisistica, in cui il bambino rappresenta una promessa di continuazione di una lunga catena che unisce alla propria famiglia di origine e di cui assumerà alcune caratteristiche; ed infine la realizzazione di ideali e di occasioni perdute. Il bambino desiderato contiene in sé l’io ideale del genitore e il desiderio di rinnovare vecchie relazioni: il figlio comporta la possibilità di rinnovamento, di transfert di legami perduti, l’occasione di sostituire la propria madre e contemporaneamente di separarsi da lei; si sperimenta così una doppia identificazione, con la propria madre e con il proprio feto. Ancora, una donna può aspettarsi di trovare le sue caratteristiche riflesse e perpetuate nel figlio, oppure considerare la procreazione un modo di compensare le carenze che avverte in se stessa, allevando un figlio il quale realizzi ciò che ella non è stata capace di realizzare, o diventi quello che lei vorrebbe essere. Una donna può sentirsi infatti sicura della sua femminilità e guardare alla procreazione come un’ulteriore conferma della propria identità femminile; oppure può dubitare e aver bisogno della gravidanza come dimostrazione della propria adeguatezza di donna e del fatto che è adulta, o può chiedersi se il fare figli sia necessario alla sua identità; oppure può desiderare la maternità come identità sostitutiva per aspirazioni di carriera non realizzate, oppure giudicarla un impedimento rispetto alla sua identità di persona che vuole raggiungere certe mete professionali ce una donna ha scarsa stima di sé, può essere riluttante a fare figli, nel timore che il figlio cresca simile a lei, con i suoi difetti. A seconda di come si valuta una donna può desiderare o meno la continuità biologica come una sorta d’immortalità: molteplici e ambivalenti possono essere dunque le diverse facce del “desiderio di gravidanza e di maternità”.
2015
978-88-917-1012-3
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