La forma di governo regionale è stato tema non poco dibattuto in dottrina, così come lo è stata la positivizzazione della locuzione all’interno dell’art. 123, c. 1, Cost. (modificato dalla l. cost. 1/1999). Da categoria dottrinale a categoria di diritto positivo, la forma di governo regionale ha trovato svolgimento nelle previsioni costituzionali e negli statuti regionali (attualmente dodici), entrati in vigore successivamente alla riforma costituzionale. L’esame sistematico delle disposizioni statutarie delle regioni ordinarie in materia di forma di governo, sia per il profilo statico-strutturale che per quello dinamico-funzionale, rivela che gli statuti, salvo aver mutuato l’innovazione costituzionale dell’elezione diretta del Presidente della regione (con il conseguente operare dell’ormai “conaolidato” simul/simul), non hanno introdotto significative novità sul piano dei poteri spettanti ad esecutivo e legislativo. In particolare, l’opzione “strutturale” per l’elezione diretta, non sembra aver trovato la “quadratura del cerchio” sul piano funzionale, attraverso una più netta separazione delle funzioni tra esecutivo e legislativo, in una logica di direzione delle scelte di indirizzo politico-amministrativo da parte del primo e di rafforzamento della funzione di controllo da parte del secondo (sul primo). Tutt’altro, gli articoli degli statuti ordinari che elencano (prolissamente) le funzioni del consiglio regionale sembrano voler conservare – analogamente a quanto avveniva prima della riforma – un regime di “co-determinazione” dell’indirizzo politico tra esecutivo e legislativo. Non a caso, il consiglio mantiene la competenza sugli atti attraverso cui si articolano le principali scelte di indirizzo politico-amministrativo. Al di là delle leggi e della manovra di bilancio, approva gli atti di pianificazione e programmazione generale, intersettoriale e settoriale e conserva una certa competenza in materia di nomine oltre che nell’adozione dei regolamenti regionali. Ecco perché se tale e tanto è il potere di intervento dei consigli, si è avvertita l’esigenza di verificarlo nella prassi, per capire se queste competenze formali si traducono in una effettiva partecipazione alla determinazione dell’indirizzo politico-amministrativo o celano, piuttosto, una supina accettazione delle proposte giuntali. I dati che emergono dal Rapporto annuale sulla legislazione pubblicato dall’Osservatorio sulla legislazione della Camera dei Deputati, nonché dai Rapporti annuali elaborati da alcune regioni, e dalla documentazione fornita da alcune segreterie regionali, non sono affatto sconfortanti. Non lo sono per la legislazione, non essendo trascurabili le leggi di iniziativa consiliare o mista, così come gli emendamenti apportati ai progetti di legge di iniziativa giuntale. Non lo sono neppure per gli atti di programmazione e pianificazione che, come dimostrano i dati offerti dal Rapporto annuale sulla legislazione dell’Osservatorio della Camera di Deputati, costituiscono la categoria di atti amministrativi quantitativamente e qualitativamente più significativa. Con un distinguo riguardo a quest’ultima tipologia di atti: i consigli, infatti, approfondiscono, dibattono e modificano i piani e programmi di maggiore portata, relativi alle fondamentali scelte di indirizzo in materia di sanità, servizi socio-assistenziali, territorio e ambiente, sviluppo produttivo; mentre si limitano alla mera presa d’atto dei piani e programmi annuali che danno esecuzione a piani e programmi pluriennali già in precedenza approvati, dei piani e programmi di enti ed istituti pubblici, dei piani e programmi dal contenuto strettamente tecnico-specialistico, dei piani e programmi relativi a singoli e specifici interventi o con contenuto di gestione amministrativa di risorse già stanziate ed approvate in bilancio. E con ciò i consigli si dimostrano vittime di sé stessi, perché hanno cercato la compensazione del complesso di inferiorità “strutturale”, per non detenere più un efficace strumento di “vita e morte” sull’esecutivo, implementando le loro competenze ad approvare atti giuntali, realizzando una vera escalation bulimica e controproducente. Anziché disperdere energie nell’approvazione di questa miriade di piani e programmi, per poi limitarsi alla loro passiva “ratifica”, meglio sarebbe che le liberassero per concentrarle sui principali atti di programmazione e pianificazione. In questo modo, la piena responsabilità della programmazione e pianificazione di minor respiro non potrebbe che cadere sull’esecutivo, in modo trasparente anche per gli elettori, senza essere celata dietro il paravento della formale approvazione consiliare, così concretando una migliore corrispondenza tra opzione “strutturale” ed opzione “funzionale” in materia di forma di governo (nell’ottica di una separazione delle competenze che consenta all’organo monocratico, dotato di legittimazione democratica diretta, di realizzare con una certa immediatezza ed autonomia le proprie scelte di governo). In questo modo, il consiglio, concentrandosi sulle fondamentali decisioni di indirizzo politico-amministrativo, potrebbe al meglio sfruttare gli stimoli che le commissioni non mancano di offrirgli. L’indagine svolta documenta, infatti, il buon lavoro istruttorio che le commissioni compiono, dimostrando impegno e sensibilità nei confronti delle istanze del pluralismo, attraverso l’indizione di numerose, quanto proficue, consultazioni. Ed allora, forse, in un periodo in cui si parla tanto di democrazia partecipativa e deliberativa, i consigli – attraverso le commissioni – già manifestano una certa pratica dimestichezza con il tema. Lo strumento, tanto tradizionale, quanto attuale, delle consultazioni delle istanze del pluralismo sociale da parte delle commissioni risulta un utile mezzo di (ri)legittimazione consiliare, senza la necessità di doverne costruire nuovi e più “fantasiosi”.

Codeterminare senza controllare. La via futura delle assemblee elettive regionali

MACCABIANI, Nadia
2010-01-01

Abstract

La forma di governo regionale è stato tema non poco dibattuto in dottrina, così come lo è stata la positivizzazione della locuzione all’interno dell’art. 123, c. 1, Cost. (modificato dalla l. cost. 1/1999). Da categoria dottrinale a categoria di diritto positivo, la forma di governo regionale ha trovato svolgimento nelle previsioni costituzionali e negli statuti regionali (attualmente dodici), entrati in vigore successivamente alla riforma costituzionale. L’esame sistematico delle disposizioni statutarie delle regioni ordinarie in materia di forma di governo, sia per il profilo statico-strutturale che per quello dinamico-funzionale, rivela che gli statuti, salvo aver mutuato l’innovazione costituzionale dell’elezione diretta del Presidente della regione (con il conseguente operare dell’ormai “conaolidato” simul/simul), non hanno introdotto significative novità sul piano dei poteri spettanti ad esecutivo e legislativo. In particolare, l’opzione “strutturale” per l’elezione diretta, non sembra aver trovato la “quadratura del cerchio” sul piano funzionale, attraverso una più netta separazione delle funzioni tra esecutivo e legislativo, in una logica di direzione delle scelte di indirizzo politico-amministrativo da parte del primo e di rafforzamento della funzione di controllo da parte del secondo (sul primo). Tutt’altro, gli articoli degli statuti ordinari che elencano (prolissamente) le funzioni del consiglio regionale sembrano voler conservare – analogamente a quanto avveniva prima della riforma – un regime di “co-determinazione” dell’indirizzo politico tra esecutivo e legislativo. Non a caso, il consiglio mantiene la competenza sugli atti attraverso cui si articolano le principali scelte di indirizzo politico-amministrativo. Al di là delle leggi e della manovra di bilancio, approva gli atti di pianificazione e programmazione generale, intersettoriale e settoriale e conserva una certa competenza in materia di nomine oltre che nell’adozione dei regolamenti regionali. Ecco perché se tale e tanto è il potere di intervento dei consigli, si è avvertita l’esigenza di verificarlo nella prassi, per capire se queste competenze formali si traducono in una effettiva partecipazione alla determinazione dell’indirizzo politico-amministrativo o celano, piuttosto, una supina accettazione delle proposte giuntali. I dati che emergono dal Rapporto annuale sulla legislazione pubblicato dall’Osservatorio sulla legislazione della Camera dei Deputati, nonché dai Rapporti annuali elaborati da alcune regioni, e dalla documentazione fornita da alcune segreterie regionali, non sono affatto sconfortanti. Non lo sono per la legislazione, non essendo trascurabili le leggi di iniziativa consiliare o mista, così come gli emendamenti apportati ai progetti di legge di iniziativa giuntale. Non lo sono neppure per gli atti di programmazione e pianificazione che, come dimostrano i dati offerti dal Rapporto annuale sulla legislazione dell’Osservatorio della Camera di Deputati, costituiscono la categoria di atti amministrativi quantitativamente e qualitativamente più significativa. Con un distinguo riguardo a quest’ultima tipologia di atti: i consigli, infatti, approfondiscono, dibattono e modificano i piani e programmi di maggiore portata, relativi alle fondamentali scelte di indirizzo in materia di sanità, servizi socio-assistenziali, territorio e ambiente, sviluppo produttivo; mentre si limitano alla mera presa d’atto dei piani e programmi annuali che danno esecuzione a piani e programmi pluriennali già in precedenza approvati, dei piani e programmi di enti ed istituti pubblici, dei piani e programmi dal contenuto strettamente tecnico-specialistico, dei piani e programmi relativi a singoli e specifici interventi o con contenuto di gestione amministrativa di risorse già stanziate ed approvate in bilancio. E con ciò i consigli si dimostrano vittime di sé stessi, perché hanno cercato la compensazione del complesso di inferiorità “strutturale”, per non detenere più un efficace strumento di “vita e morte” sull’esecutivo, implementando le loro competenze ad approvare atti giuntali, realizzando una vera escalation bulimica e controproducente. Anziché disperdere energie nell’approvazione di questa miriade di piani e programmi, per poi limitarsi alla loro passiva “ratifica”, meglio sarebbe che le liberassero per concentrarle sui principali atti di programmazione e pianificazione. In questo modo, la piena responsabilità della programmazione e pianificazione di minor respiro non potrebbe che cadere sull’esecutivo, in modo trasparente anche per gli elettori, senza essere celata dietro il paravento della formale approvazione consiliare, così concretando una migliore corrispondenza tra opzione “strutturale” ed opzione “funzionale” in materia di forma di governo (nell’ottica di una separazione delle competenze che consenta all’organo monocratico, dotato di legittimazione democratica diretta, di realizzare con una certa immediatezza ed autonomia le proprie scelte di governo). In questo modo, il consiglio, concentrandosi sulle fondamentali decisioni di indirizzo politico-amministrativo, potrebbe al meglio sfruttare gli stimoli che le commissioni non mancano di offrirgli. L’indagine svolta documenta, infatti, il buon lavoro istruttorio che le commissioni compiono, dimostrando impegno e sensibilità nei confronti delle istanze del pluralismo, attraverso l’indizione di numerose, quanto proficue, consultazioni. Ed allora, forse, in un periodo in cui si parla tanto di democrazia partecipativa e deliberativa, i consigli – attraverso le commissioni – già manifestano una certa pratica dimestichezza con il tema. Lo strumento, tanto tradizionale, quanto attuale, delle consultazioni delle istanze del pluralismo sociale da parte delle commissioni risulta un utile mezzo di (ri)legittimazione consiliare, senza la necessità di doverne costruire nuovi e più “fantasiosi”.
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