In sede di indagine sulla natura giuridica del reclamo (svolta nel primo capitolo), nel riconoscere la duplice veste, amministrativa e processuale, del reclamo, si è ritenuto di non condividere l’impostazione interpretativa secondo cui il reclamo assumerebbe in un primo momento la veste giuridica di istanza amministrativa (con cui si chiede all’Amministrazione finanziaria, dunque in sede amministrativa, l’annullamento totale o parziale dell’atto impositivo) e, solo in un secondo momento, in caso di esito negativo (totale o parziale) di tale “fase amministrativa”, “muterebbe” la sua veste giuridica in ricorso giurisdizionale. Al di là dell’infelice formulazione normativa (art. 17-bis, co. 9, d.lgs. n. 546 del 1992), il reclamo è sin dall’origine e contestualmente ricorso giurisdizionale e istanza amministrativa di annullamento (totale o parziale) dell’atto impositivo, nel senso che già a partire dalla sua proposizione all’Amministrazione finanziaria il reclamo assume la duplice (e distinta, anche se connessa per i motivi indicati) veste giuridica di ricorso giurisdizionale e di istanza amministrativa. Difatti, assunto che la proposizione del reclamo nei confronti dell’Amministrazione finanziaria produce l’effetto giuridico di impedire la decadenza dall’impugnazione e, quindi, la definitività dell’atto impositivo oggetto di reclamo, tale effetto giuridico non può che essere imputato al reclamo quale ricorso giurisdizionale e non certamente al reclamo quale istanza amministrativa (rivolta all’Amministrazione finanziaria) di riesame dell’atto impositivo. L’indagine si è poi soffermata sull’altra veste giuridica del reclamo, quella amministrativa. Qui l’indagine è stata essenzialmente rivolta ad un puntuale inquadramento sistematico dell’istituto tributario del reclamo, anche e soprattutto al fine di verificare se sotto tale specifica veste giuridica quest’ultimo sia assimilabile o meno agli istituti dei ricorsi amministrativi conosciuti nell’ambito del diritto amministrativo. E' stata ravvisata l’esistenza di identità funzionali tra l’istituto tributario del reclamo ed il genere dei ricorsi amministrativi, quali rimedi giuridici con funzione giustiziale. Si è ritenuto che il reclamo (nella sua veste amministrativa) costituisce un tipizzato procedimento amministrativo di riesame giustiziale dell’atto impositivo, in funzione di tutela del contribuente, retto dal principio della domanda (principio dispositivo), nel senso che l’Amministrazione finanziaria adita, nel valutare e decidere il reclamo, deve attenersi al suo contenuto, non potendo introdurre d’ufficio motivi diversi da quelli dedotti nel reclamo. In questo quadro si inserisce la mediazione, istituto avente autonoma e distinta portata applicativa, pur se legato al reclamo (ed alla sua proposizione) da un nesso di dipendenza strutturale, e diretto a favorire, già nella suddetta fase, la definizione della pretesa impositiva in termini sostanzialmente analoghi a quanto continuerà ad avvenire, per le liti di valore superiore a ventimila euro, mediante la conciliazione giudiziale. Tra mediazione e conciliazione si riscontra invero una tendenziale sovrapponibilità di disciplina che orienta decisamente la ricostruzione sistematica dell’istituto, sia perché entrambi presuppongono la notifica dell’atto introduttivo del giudizio (non importa se ricorso/ricorso o ricorso/reclamo perché il reclamo è il ricorso) sia in ragione dell’esclusione della conciliazione per le liti rientranti nel campo di applicazione dell’art. 17-bis, sia in quanto i parametri ai quali l’Amministrazione è chiamata ad orientare la valutazione di mediabilità della controversia corrispondono a quelli ordinariamente applicati per le procedure di conciliazione, sia, da ultimo, perché, pur nei limiti della compatibilità, la norma sulla mediazione richiama l’art. 48 d. lgs. n. 546 del 1992. La mediazione presenta tuttavia due sostanziali peculiarità: la prima si pone in ottica propriamente derogatoria rispetto alla conciliazione, nella misura in cui si prevede un “termine massimo certo” entro cui la mediazione può essere conclusa (novanta giorni dalla proposizione del reclamo anziché la prima udienza, la cui celebrazione dipende dal carico della singola Commissione tributaria); la seconda è viceversa conseguente alla mancata costituzione in giudizio delle parti, che esclude del tutto il coinvolgimento del giudice, il quale, nel caso della conciliazione, dopo averne valutata l’ammissibilità, è comunque chiamato solo a disporre l’estinzione del giudizio prendendo atto delle intese delle parti, perché, come statuito dalla Corte costituzionale, la valutazione della congruità della determinazione dell’imposta è rimessa all’Amministrazione. Si è avuto modo di soffermarsi anche sulla possibile riconducibilità, dell’accordo di mediazione, ad un modello negoziale di diritto comune, e segnatamente alla transazione come disciplinata dalle disposizioni del codice civile. La dottrina, pur manifestando talora le proprie perplessità, ha riconosciuto che il principio della indisponibilità del tributo ha subito una progressiva erosione, aprendo nuove prospettive all’applicazione di strumenti consensuali di definizione dell’imposta. Questa tendenza si ripropone senza dubbio anche per la mediazione, la cui norma di riferimento si presta ad esser considerata come una delle aree nelle quali il principio della indisponibilità subisce quella attenuazione che la Suprema Corte, con riguardo all’art. 48, ha ricostruito in termini di vera e propria deroga. Nell’ambito della mediazione, sono certamente rimessi all’ufficio margini di apprezzamento per la formulazione e la valutazione delle proposte, ma queste prerogative andranno esercitate alla luce di criteri direttamente discendenti dai principi generali che regolano l’azione amministrativa e segnatamente quelli di imparzialità e di trasparenza, che imporranno anche la motivazione delle scelte compiute dall’Amministrazione laddove essa, con l’accordo di mediazione, debba prendere posizione sulla concreta configurabilità del presupposto d’imposta o sulla determinazione della base imponibile. Queste scelte non appaiono rimesse a valutazioni tipiche dell’autonomia privata, poiché mentre il relativo esercizio può determinare le parti a rinunciare a pretese anche giuridicamente fondate, l’art. 17-bis pone il limite dell’incertezza della questione controversa, escludendo che l’Amministrazione possa giungere alla mediazione ove sia persuasa della fondatezza della propria pretesa. Se dunque sul piano della disponibilità del tributo possa configurarsi un’apertura, il tema delle reciproche concessioni tipiche della transazione appare difficilmente mutuabile. Si è tuttavia sottolineato che anche nella mediazione, come già rilevato dalla Suprema Corte in relazione alla conciliazione, il sistema intende costruire una dialettica tra le parti su un piano di parità, cosicché non sembrano esservi ostacoli all’apertura verso un modello sostanzialmente negoziale (sul piano dello strumento) nel quale il segmento transattivo, se non arriva ad investire la causa dell’accordo, imprime ad esso una direzione finalistica funzionale alla traduzione in concreto della ratio della disciplina. Infine, alla luce della giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 276 del 2000) avente a oggetto i dubbi d’incostituzionalità del tentativo obbligatorio di conciliazione in materia di diritto del lavoro, si è indagato sulla compatibilità costituzionale del reclamo di cui all’art. 17-bis nella sua veste di rimedio giurisdizionale in termini, dunque, di “giurisdizione condizionata”. Nel tentativo di ricostruzione effettuata, tale forma di giurisdizione condizionata, nella quale si apre necessariamente una parentesi amministrativa finalizzata a un riesame giustiziale dell’atto impugnato, non sembra sollevare fondati dubbi di (in)costituzionalità, poiché sono rispettate tutte le condizioni poste dalla Corte costituzionale nella citata sentenza. Preliminarmente il reclamo nella sua veste amministrativa apre un procedimento amministrativo di riesame giustiziale dell’atto impositivo impugnato che può rispondere a quelle “esigenze di ordine generale” e alle “superiori finalità di giustizia”, richieste costantemente dalla giurisprudenza della Corte costituzionale in punto di giurisdizione condizionata. Pertanto lo spatium deliberandi normativamente previsto in novanta giorni e concesso all’Amministrazione finanziaria potrà rispondere a quell’esigenza di efficacia dell’azione amministrativa e portare ad una più rapida risoluzione extra judicium delle liti, così da ridurre l’abuso del processo e migliorare l’efficienza dell’azione amministrativa in conformità all’art. 97 Cost. e all’autorevole orientamento alloriano, secondo cui “il rispetto del diritto, la tendenza anzi all’attuazione d’esso, l’attività insomma di giustizia sono un’appartenenza istituzionale al concetto dell’Amministrazione pubblica”. Aderendo all’orientamento interpretativo della Corte costituzionale statuito nella menzionata sentenza del 2000, in cui sono stati fissati i tre criteri per rispettare il parametro di costituzionalità della richiesta di tentativo obbligatorio di conciliazione giuslavoristica, si è ritenuto nel presente studio che il termine di novanta giorni possa essere considerato dalla Consulta come un termine congruo e ragionevole, in quanto: i) il reclamo nella sua veste giurisdizionale produce tutti gli effetti della domanda giudiziale, primo fra tutti quello di impedire la definitività/inoppugnabilità dell’atto impositivo oggetto di reclamo; ii) per tale ragione, se il giudice fosse adito prima del rispetto dei novanta giorni nei quali l’Amministrazione riesamina l’atto in funzione giustiziale, la sua sanzione non potrebbe essere quella di decretare l’inammissibilità del ricorso-reclamo, ma al massimo quella dell’“improcedibilità” dello stesso, conformemente a una lettura interpretativa costituzionalmente orientata; iii) la tutela cautelare in pendenza della fase amministrativa deve essere ammessa in quanto preordinata ad assicurare l’effettività della tutela giurisdizionale, dato che il processo con la notificazione del reclamo/ricorso è già pendente, ancorché quiescente. In conclusione, nel rispetto delle tre condizioni poste dalla sentenza della Consulta n. 276 del 2000, è fondatamente sostenibile che il termine dei novanta giorni possa essere ritenuto congruo e ragionevole, al fine di superare i dubbi di (in)costituzionalità di questa nuova forma di giurisdizione condizionata sancita dall’art. 17-bis del d.lgs. n. 546 del 1992.

IL RECLAMO E LA MEDIAZIONE NEL SISTEMA TRIBUTARIO

CORASANITI, Giuseppe
2013-01-01

Abstract

In sede di indagine sulla natura giuridica del reclamo (svolta nel primo capitolo), nel riconoscere la duplice veste, amministrativa e processuale, del reclamo, si è ritenuto di non condividere l’impostazione interpretativa secondo cui il reclamo assumerebbe in un primo momento la veste giuridica di istanza amministrativa (con cui si chiede all’Amministrazione finanziaria, dunque in sede amministrativa, l’annullamento totale o parziale dell’atto impositivo) e, solo in un secondo momento, in caso di esito negativo (totale o parziale) di tale “fase amministrativa”, “muterebbe” la sua veste giuridica in ricorso giurisdizionale. Al di là dell’infelice formulazione normativa (art. 17-bis, co. 9, d.lgs. n. 546 del 1992), il reclamo è sin dall’origine e contestualmente ricorso giurisdizionale e istanza amministrativa di annullamento (totale o parziale) dell’atto impositivo, nel senso che già a partire dalla sua proposizione all’Amministrazione finanziaria il reclamo assume la duplice (e distinta, anche se connessa per i motivi indicati) veste giuridica di ricorso giurisdizionale e di istanza amministrativa. Difatti, assunto che la proposizione del reclamo nei confronti dell’Amministrazione finanziaria produce l’effetto giuridico di impedire la decadenza dall’impugnazione e, quindi, la definitività dell’atto impositivo oggetto di reclamo, tale effetto giuridico non può che essere imputato al reclamo quale ricorso giurisdizionale e non certamente al reclamo quale istanza amministrativa (rivolta all’Amministrazione finanziaria) di riesame dell’atto impositivo. L’indagine si è poi soffermata sull’altra veste giuridica del reclamo, quella amministrativa. Qui l’indagine è stata essenzialmente rivolta ad un puntuale inquadramento sistematico dell’istituto tributario del reclamo, anche e soprattutto al fine di verificare se sotto tale specifica veste giuridica quest’ultimo sia assimilabile o meno agli istituti dei ricorsi amministrativi conosciuti nell’ambito del diritto amministrativo. E' stata ravvisata l’esistenza di identità funzionali tra l’istituto tributario del reclamo ed il genere dei ricorsi amministrativi, quali rimedi giuridici con funzione giustiziale. Si è ritenuto che il reclamo (nella sua veste amministrativa) costituisce un tipizzato procedimento amministrativo di riesame giustiziale dell’atto impositivo, in funzione di tutela del contribuente, retto dal principio della domanda (principio dispositivo), nel senso che l’Amministrazione finanziaria adita, nel valutare e decidere il reclamo, deve attenersi al suo contenuto, non potendo introdurre d’ufficio motivi diversi da quelli dedotti nel reclamo. In questo quadro si inserisce la mediazione, istituto avente autonoma e distinta portata applicativa, pur se legato al reclamo (ed alla sua proposizione) da un nesso di dipendenza strutturale, e diretto a favorire, già nella suddetta fase, la definizione della pretesa impositiva in termini sostanzialmente analoghi a quanto continuerà ad avvenire, per le liti di valore superiore a ventimila euro, mediante la conciliazione giudiziale. Tra mediazione e conciliazione si riscontra invero una tendenziale sovrapponibilità di disciplina che orienta decisamente la ricostruzione sistematica dell’istituto, sia perché entrambi presuppongono la notifica dell’atto introduttivo del giudizio (non importa se ricorso/ricorso o ricorso/reclamo perché il reclamo è il ricorso) sia in ragione dell’esclusione della conciliazione per le liti rientranti nel campo di applicazione dell’art. 17-bis, sia in quanto i parametri ai quali l’Amministrazione è chiamata ad orientare la valutazione di mediabilità della controversia corrispondono a quelli ordinariamente applicati per le procedure di conciliazione, sia, da ultimo, perché, pur nei limiti della compatibilità, la norma sulla mediazione richiama l’art. 48 d. lgs. n. 546 del 1992. La mediazione presenta tuttavia due sostanziali peculiarità: la prima si pone in ottica propriamente derogatoria rispetto alla conciliazione, nella misura in cui si prevede un “termine massimo certo” entro cui la mediazione può essere conclusa (novanta giorni dalla proposizione del reclamo anziché la prima udienza, la cui celebrazione dipende dal carico della singola Commissione tributaria); la seconda è viceversa conseguente alla mancata costituzione in giudizio delle parti, che esclude del tutto il coinvolgimento del giudice, il quale, nel caso della conciliazione, dopo averne valutata l’ammissibilità, è comunque chiamato solo a disporre l’estinzione del giudizio prendendo atto delle intese delle parti, perché, come statuito dalla Corte costituzionale, la valutazione della congruità della determinazione dell’imposta è rimessa all’Amministrazione. Si è avuto modo di soffermarsi anche sulla possibile riconducibilità, dell’accordo di mediazione, ad un modello negoziale di diritto comune, e segnatamente alla transazione come disciplinata dalle disposizioni del codice civile. La dottrina, pur manifestando talora le proprie perplessità, ha riconosciuto che il principio della indisponibilità del tributo ha subito una progressiva erosione, aprendo nuove prospettive all’applicazione di strumenti consensuali di definizione dell’imposta. Questa tendenza si ripropone senza dubbio anche per la mediazione, la cui norma di riferimento si presta ad esser considerata come una delle aree nelle quali il principio della indisponibilità subisce quella attenuazione che la Suprema Corte, con riguardo all’art. 48, ha ricostruito in termini di vera e propria deroga. Nell’ambito della mediazione, sono certamente rimessi all’ufficio margini di apprezzamento per la formulazione e la valutazione delle proposte, ma queste prerogative andranno esercitate alla luce di criteri direttamente discendenti dai principi generali che regolano l’azione amministrativa e segnatamente quelli di imparzialità e di trasparenza, che imporranno anche la motivazione delle scelte compiute dall’Amministrazione laddove essa, con l’accordo di mediazione, debba prendere posizione sulla concreta configurabilità del presupposto d’imposta o sulla determinazione della base imponibile. Queste scelte non appaiono rimesse a valutazioni tipiche dell’autonomia privata, poiché mentre il relativo esercizio può determinare le parti a rinunciare a pretese anche giuridicamente fondate, l’art. 17-bis pone il limite dell’incertezza della questione controversa, escludendo che l’Amministrazione possa giungere alla mediazione ove sia persuasa della fondatezza della propria pretesa. Se dunque sul piano della disponibilità del tributo possa configurarsi un’apertura, il tema delle reciproche concessioni tipiche della transazione appare difficilmente mutuabile. Si è tuttavia sottolineato che anche nella mediazione, come già rilevato dalla Suprema Corte in relazione alla conciliazione, il sistema intende costruire una dialettica tra le parti su un piano di parità, cosicché non sembrano esservi ostacoli all’apertura verso un modello sostanzialmente negoziale (sul piano dello strumento) nel quale il segmento transattivo, se non arriva ad investire la causa dell’accordo, imprime ad esso una direzione finalistica funzionale alla traduzione in concreto della ratio della disciplina. Infine, alla luce della giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 276 del 2000) avente a oggetto i dubbi d’incostituzionalità del tentativo obbligatorio di conciliazione in materia di diritto del lavoro, si è indagato sulla compatibilità costituzionale del reclamo di cui all’art. 17-bis nella sua veste di rimedio giurisdizionale in termini, dunque, di “giurisdizione condizionata”. Nel tentativo di ricostruzione effettuata, tale forma di giurisdizione condizionata, nella quale si apre necessariamente una parentesi amministrativa finalizzata a un riesame giustiziale dell’atto impugnato, non sembra sollevare fondati dubbi di (in)costituzionalità, poiché sono rispettate tutte le condizioni poste dalla Corte costituzionale nella citata sentenza. Preliminarmente il reclamo nella sua veste amministrativa apre un procedimento amministrativo di riesame giustiziale dell’atto impositivo impugnato che può rispondere a quelle “esigenze di ordine generale” e alle “superiori finalità di giustizia”, richieste costantemente dalla giurisprudenza della Corte costituzionale in punto di giurisdizione condizionata. Pertanto lo spatium deliberandi normativamente previsto in novanta giorni e concesso all’Amministrazione finanziaria potrà rispondere a quell’esigenza di efficacia dell’azione amministrativa e portare ad una più rapida risoluzione extra judicium delle liti, così da ridurre l’abuso del processo e migliorare l’efficienza dell’azione amministrativa in conformità all’art. 97 Cost. e all’autorevole orientamento alloriano, secondo cui “il rispetto del diritto, la tendenza anzi all’attuazione d’esso, l’attività insomma di giustizia sono un’appartenenza istituzionale al concetto dell’Amministrazione pubblica”. Aderendo all’orientamento interpretativo della Corte costituzionale statuito nella menzionata sentenza del 2000, in cui sono stati fissati i tre criteri per rispettare il parametro di costituzionalità della richiesta di tentativo obbligatorio di conciliazione giuslavoristica, si è ritenuto nel presente studio che il termine di novanta giorni possa essere considerato dalla Consulta come un termine congruo e ragionevole, in quanto: i) il reclamo nella sua veste giurisdizionale produce tutti gli effetti della domanda giudiziale, primo fra tutti quello di impedire la definitività/inoppugnabilità dell’atto impositivo oggetto di reclamo; ii) per tale ragione, se il giudice fosse adito prima del rispetto dei novanta giorni nei quali l’Amministrazione riesamina l’atto in funzione giustiziale, la sua sanzione non potrebbe essere quella di decretare l’inammissibilità del ricorso-reclamo, ma al massimo quella dell’“improcedibilità” dello stesso, conformemente a una lettura interpretativa costituzionalmente orientata; iii) la tutela cautelare in pendenza della fase amministrativa deve essere ammessa in quanto preordinata ad assicurare l’effettività della tutela giurisdizionale, dato che il processo con la notificazione del reclamo/ricorso è già pendente, ancorché quiescente. In conclusione, nel rispetto delle tre condizioni poste dalla sentenza della Consulta n. 276 del 2000, è fondatamente sostenibile che il termine dei novanta giorni possa essere ritenuto congruo e ragionevole, al fine di superare i dubbi di (in)costituzionalità di questa nuova forma di giurisdizione condizionata sancita dall’art. 17-bis del d.lgs. n. 546 del 1992.
2013
9788813344856
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